Parte 1. La seconda navigazione di Kant1
1.1. Il primato della ragion pratica
Nel suo saggio dedicato a un confronto tra l’etica spinoziana e quella kantiana, Fernández García (1992, p. 151) 2 ha sostenuto, con buone ragioni, che entrambe sono etiche razionalistiche improntate alla realizzazione dell’autonomia. In ciascuna, è la razón crítica a fare la differenza perché, sia Spinoza che Kant, ritengono che solo una certa ‘conoscenza’ sia in grado di provare la realtà della libertà.3 Essa si nutre della distinzione del puro dal pratico,4 e il fatto che le prime sezioni della seconda Critica svolgano una funzione simile a quella affidata da Spinoza alla celebre appendice del primo libro dell’Etica è, in proposito, significativo. L’estromissione del ‘patologico’ che Kant vi persegue prima di enunciare la legge fondamentale ha lo stesso fine della spinoziana emendatio intellectus: liberare la ragione dai suoi condizionamenti empirici affinché qualcosa come una ‘seconda navigazione’ di platonica memoria sia possibile.
Appoggiandosi su gran parte delle conclusioni attinte dalla Grundlegung,5 nel 1788 Kant vuole dimostrare che l’imperativo categorico funziona, e che la ragion pura, nel suo uso pratico, è in grado, da sola, di determinare la volontà.6 Essa è pratica tramite concetti a priori e, nondimeno, con questa possibilità o estensione, non guadagna nulla rispetto alla sua capacità di comprensione. Nel suo uso pratico, la ragion pura guadagna un’assicurazione in termini di realtà oggettiva, sebbene unicamente pratica, rispetto al suo concetto non contraddittorio di libertà, mentre, con riferimento alla categoria di causalità, ricava la sua applicazione, il suo significato. Il ‘fatto della ragione’ fornisce alla categoria non schematizzata di causa (KpV A 8-10) “un’applicazione reale (wirkliche Anwendung) che si può indicare in concreto nelle intenzioni” (KpV A 99), e ciò è sufficiente a rendere lecito quest’uso della ragione “anche in riferimento ai noumeni” (KpV A 99).
Nelle massime in cui la ragione esprime la sua efficacia causale7 la categoria di causa riceve il suo contenuto, e Kant è convinto che, se si è in grado di agire secondo la legge (rendendosi conto di quando lo si fa), si è liberi.8 Il mondo intelligibile è il mondo in cui la libertà produce effetti e, così, anche l’espressione del fatto che la ragione determina un mondo di leggi morali indipendenti dalla sensibilità. Più in particolare, il regno dei fini è “l’idea di una natura, non data empiricamente, ma possibile mediante la libertà”9 e la legge morale, che Kant definisce una legge di “causalità mediante libertà” (KpV A 188), è la legge della sua costituzione. ‘Causalità’, cioè, significa ‘causazione’ e ‘mediante’ rimanda all’azione immanente del noumeno sul fenomeno. La legge morale conferisce un significato positivo al concetto di causa noumenon e il factum rationis mostra che questo concetto è attivo, ossia che la causalità intelligibile è reale.
Quantunque sia una natura costituita solo al momento del compimento dell’atto, il mondo noumenico non è un ens immaginationis. La sua realtà è oggettiva, anche se da un punto di vista pratico, perché il primato della praktische Vernunft è, per molti versi, il primato del reale sul possibile (Gonnelli, 1991, p. 61) o dell’agire sul conoscere. Pratico, per Kant, è ciò che è possibile per mezzo della libertà, ma ‘possibile’ vuol dire ‘reale’, ‘esistente’ in senso non modale. Pratico, allora, è ciò che esiste per mezzo della libertà: ciò che si pensa (e produce) quando si agisce in conformità alla legge. Pensare una legislazione universale, nella seconda Critica, significa determinare positivamente il mondo dell’intelletto puro che ne è il prodotto, giacché l’impossibilità di conoscere la libertà sancita dalla prima Critica e dalla Fondazione -la libertà era un “concetto necessariamente incomprensibile” (Dejardin, 2001, p. 26)- diviene nella Critica della ragion pratica, la condizione di possibilità per poterla realizzare.10
1.2. Il fatto della ragione
Nel 1788, né la legge morale né la libertà sono oggetti di intuizione e, quindi, di conoscenza. La loro deduzione, per Kant, è impossibile sebbene, di contro, l’esposizione dell’unico fatto della ragione risulti sufficiente.11 Indeducibile, la legge morale si mostra e questo, nella seconda Critica, basta a garantire la sua realtà. L’indeducibilità è anzi il segno della certezza, pragmaticamente rilevante, con cui essa si afferma nella coscienza. Perciò, seppure non sia deducibile, questo nemmeno costituisce un problema. Come realtà, nonostante l’esperienza non la confermi a posteriori né permetta di dedurla a priori, “essa sussiste saldamente per sé stessa [für sich selbst]” (KpV A 82) in quanto prima cognitione oltre la quale non è punto possibile risalire. La legge morale è un principio primitivo che si auto-valida e che, in luogo di essere dedotto, permette, piuttosto, la deduzione della libertà trascendentale di cui è il documento, “la prova [Beweis]” (KpV A 82). Al posto di una deduzione del principio morale, dice Kant:
Compare qualcosa di diverso e totalmente paradossale [Widersinnisches]: e cioè che, al contrario, tale principio serve di deduzione di una facoltà imperscrutabile che nessuna esperienza può mostrare e che tuttavia la ragione speculativa dovette quantomeno ammettere come possibile […]: e cioè la facoltà della libertà, di cui la legge morale, che non richiede essa stessa alcun fondamento di giustificazione, dimostra non solo la possibilità, ma la realtà [der Wirklichkeit] in esseri che riconoscono la legge morale come obbligatoria (KpV A 82).
Unico argomento possibile per dimostrare l’esistenza della libertà trascendentale,12 il Faktum der Vernunft è la più grande novità della seconda Critica. Qui l’idea di una causa libera riceve consistenza ontologica13 e la ragion pura, nel suo uso pratico, si estende al punto tale che Kant, in proposito, è costretto a parlare di ‘primato’, benché non di un primato della conoscenza (cfr. KpV A 99-100). In effetti:
[…] al di fuori degli oggetti di esperienza, e pertanto circa le cose come noumeni, alla ragion speculativa era a buon diritto interdetta ogni positiva conoscenza [Erkenntniss]. Essa, ciò nondimeno, giungeva a mettere al sicuro il concetto dei noumeni: cioè la possibilità, anzi la necessità, di pensarli, […]. Essa metteva in salvo [il concetto della libertà NdA] contro tutte le obiezioni, senza, tuttavia, fornire alcuna conoscenza determinata che a tali oggetti si potesse estendere, anzi, restandone totalmente scissa. Per contro la legge morale, pur senza darne nessuna veduta [Aussicht], fornisce un fatto assolutamente inspiegabile a partire da tutti i dati del mondo sensibile e dall’intero ambito dell’uso teoretico della nostra ragione: fatto che ci segnala un puro mondo intelligibile, anzi lo determina positivamente e ce ne fa conoscere [erkennen] qualcosa, e cioè una legge (KpV A73-74).
La ragion pratica procura realtà a un oggetto sovrasensibile della relazione dinamica di causalità fornendo, altresì, un ‘oggetto’ -la determinazione della volontà- al concetto, finora solo pensabile, di ‘causa noumenon’. In questo modo, riempie “il posto vuoto [die leere Stelle]” (KpV A 186) lasciato dalla ragion pura mediante la legge della causalità di un mondo intelligibile, dunque mediante la legge morale in quanto legge di “realizzazione del concetto di libertà” (KpV A 168). Kant la proclama ratio cognoscendi del noumeno e della possibilità di una natura sovrasensibile, perché la legge morale, spiega, è “tutto ciò che dell’incondizionato possiamo conoscere [erkennen]”.14 Ma cosa significa, qui, erkennen?
1.3. More mathematico
Nella Critica della ragion pratica, Kant fa della coscienza della propria esistenza intelligibile il pensiero di una causa noumenon,15 ossia il pensiero di una causalità mediante libertà. E la coscienza della legge morale, come Faktum der Vernunft,16 è questo stesso pensiero, ovvero il pensiero della causazione del fenomeno -il tempo- da parte del noumeno -ciò che è fuori dal tempo-. Il problema sollevato dalla realtà, o meno, della libertà trascendentale non è infatti unicamente quello di fabbricarsi un pensiero del sovrasensibile senza cadere nello Streit17 ma, altresì, quello di dimostrare in che modo l’intelligibile è causa del sensibile. Che questo sia un problema, se non addirittura il più grande dei problemi sin dai tempi di Platone, dipende dal fatto che si tratta di provare l’esistenza di qualcosa che non esiste ‘esternamente’ nell’esperienza (la causalità apriorica della volontà), e che, una volta giunti alle “facoltà o capacità fondamentali [Grundkräften oder Grundvermögen]” (KpV A 81), il ragionamento si scontra inevitabilmente con i limiti della conoscenza. La possibilità di queste ultime:
[…] non può in nessun modo esser capita [begriffen]; né, d’altra parte, può essere immaginata o postulata a capriccio. Nell’uso teoretico della ragione, perciò, solo l’esperienza ci autorizza ad ammetterle. Ma anche questo surrogato di addurre motivazioni empiriche in luogo di una deduzione da fonti conoscitive a priori, ci è tolto rispetto alla facoltà pura pratica della ragione (KpV A 81).
Con l’esposizione del Faktum der Vernunft ha “termine ogni veduta umana” (KpV A 81).18 Le facoltà fondamentali dimostrano la loro realtà con la loro opera e questa realtà è indiscutibile. Noi possiamo dedurre i loro principi, ma non la loro esistenza come facoltà:19 esse sono stabili per sé, autosufficienti e non hanno alcun bisogno di conferme empiriche. Ma allora, se l’Etica costituisce lo “sforzo potente […] di guardare la realtà non con occhi umani, bensì con quelli stessi della realtà” (Rensi, 1972, p. 5), la stessa cosa può esser fatta valere anche nei riguardi della Critica della ragion pratica. Nessuno, dice Kant, “avrebbe mai avuto il coraggio di reintrodurre la libertà nella scienza se la legge morale, e con essa la ragion pratica, non l’avesse condotto a ciò, mettendogli sotto gli occhi quel concetto” (KpV A 54). E però gli occhi sotto cui questo concetto cade non sono occhi fenomenici, umani.
Nella Critica della ragion pratica la seconda navigazione richiesta dalla definizione di un puro pensiero della causalità testimonia che la difesa del carattere incondizionato del dovere, assieme alla formulazione solo significante dell’imperativo categorico, sono espressioni di un carattere disumano nel quale “l’acciaio dell’Etica” (Raciti, 1999, p. 8) si riflette con meno distorsioni di quanto, abitualmente, si sia portati a stimare. Benché non vi sia traccia di dimostrazioni -gli occhi con cui, secondo Spinoza, le cose ci guardano (Eht. V, pr. 13, sch.)- pure è indubitabile che la morale kantiana resti fedele, nella sua formalizzazione, al modello delle matematiche. Non solo vi si trovano problemi, teoremi e corollari. Ma, prendendo le distanze dalle morali precedenti, Kant cerca una nuova formula…20 e la trova!21
La morale kantiana è una morale more matematico e l’imperativo categorico, formulazione solo significante che dice come e non che cosa fare, è lì a dimostrarlo. “Enunciazione senza enunciato” (Zupančič, 2012, p. 186), esso non vuole né prescrive e, se non significa nulla, è perché il suo versante, al pari di quello delle matematiche, è quello dell’atto e non del senso. Espressione del nesso di conformità alla legge in cui il fine soggettivo si fa oggettivo, l’imperativo categorico determina la forma dei principi come tale che costituisca un fondamento di determinazione grazie alla forma di una legge in generale. Ragion per cui esso è un generatore di massime più che di conoscenze. La logica, nel 1788, controlla l’ispirazione perché il soggetto etico, colui che dice ‘si lo voglio’ al ‘tu devi’, è il punto in cui l’universale giunge a sé stesso e ottiene la sua determinazione. Kant lo pensa come un momento di universalizzazione della legge, e la Critica della ragion pratica, in quanto critica della facoltà di desiderare, è, per questo, il cardine di un’autopsia dell’immaginazione ad opera del reale non meno potente di quella in cui si risolve la critica spinoziana della conoscenza inadeguata.22
1.4. L’eterno e il tempo
Una volontà buona o disinteressata è una volontà determinata dalla pura forma della legge e questo, tradotto in termini spinoziani, significa che l’accrescimento della nostra potenza è possibile quando la mente perviene all’idea di Dio come causa.23 Ma come è possibile che la volontà si lasci determinare così e la potenza aumenti invece di diminuire? La ragione è o non è la condizione necessaria e sufficiente della libertà? Nella Critica della ragion pratica, questi e altri interrogativi trascendentali intorno alla possibilità di un dovere incondizionato originano dalla circostanza per cui, come accennato, a differenza delle altre massime e imperativi, la legge morale non è rappresentabile né, pertanto, desiderabile, posto che la facoltà di desiderare è una facoltà di rappresentare. La legge morale è un veicolo di conoscenza ma non un oggetto di conoscenza perché Kant non dice ‘conoscenza’ (Erkenntnis) della legge morale ma ‘coscienza’ (Bewußtsein), e la coscienza, da Platone sino a Freud, è sempre coscienza di un inconscio (Unbewußt): ciò che non è conosciuto in quanto è “fuori dal tempo” (Freud, 2000, p. 73).24
Alla determinazione della volontà da parte della legge morale corrisponde immediatamente25 la coscienza della libertà, una coscienza che, esponendo il Faktum, Kant presenta come la singolare coscienza di un atto atemporale: la causazione del fenomeno da parte del noumeno.26 Che l’atto sia atemporale significa che è assoluto, sciolto dai cardini del senso interno.27 Che la coscienza che se ne ha sia la coscienza di un atto vuol dire viceversa che è una coscienza operativa che produce effetti e che solo in questo senso è causante. L’idea della legge di una causalità incondizionata della volontà ha infatti “essa stessa causalità [die Idee des Gesetzes einer Causalität selbst Causalität hat]” (KpV A 87) e questo vuol dire che “è il suo stesso fondamento di determinazione [ihr Bestimmungsgrund ist]” (KpV A 87) a prescindere dall’oggetto corrispondente.
Come Spinoza, anche Kant è convinto che solo sub specie aeternitatis nulla preceda la determinazione del volere e questo possa funzionare come la causa adeguata delle nostre azioni.28 E quando chiama la coscienza della legge morale un ‘fatto della ragione’ non è tanto perché la si possa desumere da precedenti dati razionali, ad esempio dalla coscienza della libertà -coscienza che non ci è punto data-, bensì perché “essa si impone di per sé stessa come una proposizione sintetica a priori non fondata su alcuna intuizione, né pura, né empirica” (KpV A 56). La legge morale, al pari dell’idea di Dio, obbliga come un assioma,29 ma non c’è nulla che preceda il suo darsi. In una certezza sensibile consiste il segno che il suo passaggio, il Faktum, produce nella coscienza perché che legge morale e libertà vi si diano insieme (KpV A 7, n. 5) vuol dire che, pure, insieme non sono determinabili conoscitivamente.
Della libertà non c’è intuizione, fintanto che intuizione significa conoscenza, ossia rappresentazione spazio-temporale resa possibile da un uso schematizzato delle categorie; quella della libertà è, piuttosto, una “percezione originaria” (Refl. 4723, 18: 688) permessa da un’unificazione né spaziale né temporale di un molteplice diverso che Kant, nel 1788, chiama ‘in genere’ pensando a una struttura più ampia: quella di un agire in cui le categorie non si riferiscono agli oggetti dell’esperienza ricevuti nello spazio e nel tempo, ma, precisamente, all’oggetto überhaupt.30 Secondo alcuni interpreti,31 tuttavia, questa struttura ha una fisionomia radicalmente platonica perché la legge morale, in quanto ratio cognoscendi della libertà che prende il posto dell’interdetta intuizione intellettuale (KpV A 72), non è così diversa dalla noesi dell’antica metafisica. Molto più simile all’altro tipo di intuizione ipotizzato accanto a quella tipicamente sensibile e tipicamente umana,32 quella della libertà è l’intuizione immediata di un molteplice dato ma non ricevuto con cui, a causa della sua indipendenza dallo spazio e dal tempo, il soggetto si trova in un rapporto di assoluta dipendenza, sebbene questo non escluda del tutto la sua attività.
Simile allo spazio e al tempo, con i quali condivide l’assoluta datità,33 la legge morale tipicizzata dall’imperativo categorico è una legge “semi-detta” (Zupančič, 2012, p. 188) che implica un semi-dire o, ciò che è lo stesso, una legge intra-vista che implica un intra-vedere. In quanto tale, in quanto cioè è non-tutta, essa diventa legge solo grazie all’atto -la determinazione della volontà- che la completa. L’atto crea la legge che, quindi, non esiste prima,34 perché malgrado la soddisfazione dell’imperativo categorico sia disponibile “zu aller Zeit” (KpV A 37) e tutti abbiano un’idea di Dio (Eth. II, pr. 47, sch.), sia per Spinoza che per Kant l’esperienza dell’eternità e della libertà resta possibile “solo mentre dura il corpo” (Eth. V, pr. 21).35 È nel tempo, regno fenomenico dell’immaginazione in cui la ragione, da sola, non può nulla, che la ragione deve farsi sentire. E ciò equivale a dire che, per essere efficace, la ragione deve appassionarsi, patologizzarsi. La ragione, nel linguaggio della seconda Critica, deve diventare un movente e mostrare di avere causalità rispetto alle nostre azioni. E però, nel determinare la volontà, non deve avere il tempo, il medio, l’auxilium imaginationis, a suo fondamento (Eth. V. pr. 23, sch.).36
Nondimeno se il tempo è, sia per Spinoza che per Kant, sinonimo anzitutto di passività e condizionamento, come può la ragione essere, contemporaneamente, patente e agente, temporale e non? Come riesce a salvaguardare la sua extra-temporalità incidendo, comunque, sulla sintesi temporale dei fenomeni?37 In che modo, in altre parole il noumeno può agire nel fenomeno e il puro operare come pratico?
2. Il miracolo della ragione
2.1. Idealismo pratico
Il problema di come la legge morale, che non può essere oggetto di rappresentazione, possa determinare la nostra volontà si pone, per la prima volta, nella Critica della ragion pratica. Qui la facoltà di desiderare è descritta come la facoltà, per l’uomo, di essere causa della realtà degli oggetti delle sue rappresentazioni mediante altre rappresentazioni. Ma la legge morale è irrappresentabile e, quindi, anche indesiderabile. Di qui il problema: come può qualcosa che non è rappresentazione essere il movente delle nostre azioni posto che senza movente non si agisce? Kant lo risolve col rispetto: un sentimento a priori, privo di origine empirica, in grado di determinare la volontà. Il compito della seconda Critica, infatti, è mostrare che la ragion pura produce a priori un sentimento, ossia che è pratica di per sé.38 E, affettando il soggetto, la legge morale produce immediatamente il rispetto, il quale, perciò, rende evidente che l’irrappresentabile causa il volere.
La legge morale ha un effetto sensibile sulla facoltà di desiderare39 perché anche Kant è convinto che la conoscenza chiara non derivi soltanto dalla convinzione prodotta dalla ragione ma, parimenti, da un sentire la cosa stessa (Eth. V, pr. 23, sch.).40 Solo che tale effetto non può, pena il ricadere nel regno del determinismo,41 essere successivo rispetto alla causa. L’effetto deve esserle contemporaneo, e solo il rispetto42 è questo effetto sensibile che non è separato nel tempo dalla causa intelligibile che lo genera.43 Kant ne fa la ratio sentiendi della legge morale e, in quanto sentimento solo pratico e non anche patologico -“nessuno prova rispetto per le proprie inclinazioni” (KpV A 134; cfr. A 164)-,44 anche la nuova forma della sensibilità universale.45 Come il sentimento di eternità che, in Spinoza, non è causa della vita beata, ma la vita beata stessa,46 il rispetto rivela il costringimento pratico e, così, anche l’azione immanente del noumeno sul fenomeno. Ma lo fa, ciò che è più importante, senza ricorrere a intermediari.47
Segno sensibile della causalità intelligibile, die Achtung lo è come un segno diretto, univoco: un segno che non segue il condizionamento della volontà ma lo costituisce. Per Kant esso è la prova del libero assoggettamento alla propria natura intelligibile e, di conseguenza, anche quella della trasformazione o conversione della mente da uno stato passivo o minoritario a uno attivo e autonomo. Come Spinoza, Kant fa di una certa disumanizzazione la condizione trascendentale di possibilità di questo passaggio48 e, che ciò sia vero almeno per il Kant della seconda Critica, è provato dalle prime quattro sezioni della stessa. Kant vi si impegna in una lotta altrettanto serrata di quella di Spinoza nei confronti di tutto ciò che ci rende passivi condizionando solo empiricamente la ragione, perché Aufklärer anche Kant lo è nella misura in cui combatte la servitù immaginaria della mente.
2.2. Libertas necessitatis
Al pari della visio necessitatis o sub specie aeternitatis di cui si sostanzia il terzo genere di conoscenza per Spinoza, anche la coscienza della legge morale che, in Kant, rende possibile un pensiero del noumeno, esprime uno stato emendato della mente. Ciascuna consiste in un atto: il taglio della confusione e dell’inadeguatezza, della dipendenza e della schiavitù49 e ciascuna attesta la Wirklichkeit (sia realtà che efficacia) dell’eterno assieme alla sua continua attività causale (cfr. Scaravelli, 1973, p. 151; Morichère, 1980, pp. 46 e sgg.). L’eterno è reale e agisce nel tempo. Questo ci dicono sia Kant che Spinoza. E la sua azione, assieme alla sua realtà, si manifesta in concreto (cfr. KpV A 98-99) nell’aspirazione delle passioni ad opera di un principio formale unificante,50 ossia in quella morte dell’ego che, da Platone in poi, inaugura ogni seconda navigazione. I principi pratici di Kant, come le essenze di Spinoza, sono zeitlos, e pertanto l’esperienza dell’eternità,51 in quanto esperienza di un preciso modo dell’esistenza, quello della necessità assoluta,52 è l’unica garanzia della possibilità reale di compiere un atto conforme alla legge morale.53 Che il soggetto possa incontrare la legge54 solo quando non ha davanti nessun oggetto concreto (Martínez, 2004, p. 342),55 sia esso l’ens imaginationis della conoscenza inadeguata o il bene ricercato dall’empirica facoltà rappresentativa del desiderare, è una tesi condivisa da entrambi. E ognuno fa di questo incontro, traumatico solo per l’amore narcisistico di sé, la causa immediata della liberazione. L’esperienza della libertà è, cioè, l’esperienza di un “vincolo assoluto” (Mathieu, 2014, p. 20; cfr. Düsing, 1993, p. 43) e, quindi, un’esperienza che non ha nulla a che vedere con la libera scelta fra due alternative egualmente possibili e altrettanto egualmente inesistenti. Ma se nemmeno si risolve nella spontaneità di cui siamo coscienti è perché il rovescio di quello che Zupančič ha chiamato “postulato de-psicogizzante della libertà”, secondo il quale siamo molto meno liberi di quanto crediamo, è “il postulato trascendentale” della medesima, secondo il quale, al contrario, siamo molto più liberi di quel che sappiamo (Zupančič, 2012, pp. 51-70; cfr. Mathieu, 2014, pp. 16-19).
La libertà, detto altrimenti, si manifesta nel mondo ma non è del mondo. E se per il Kant di alcune riflessioni del periodo precritico essa si attinge “attraverso la nostra intuizione intellettuale interna […] della nostra attività” (Refl. 4336; 17: 509),56 per quello critico che ha sconfessato il carattere di dato immediato della libertà, essa è inconcepibile senza la legge. Nel 1788, la legge morale è tutto ciò che dell’incondizionato conosciamo e la coscienza che ne abbiamo è proprio uno dei fenomeni che Kant chiama ‘fatto della ragione’. Quest’ultimo, quando è inteso in un simile modo, esprime la realtà della ragione pura pratica, ossia la circostanza per cui la ragione non può non determinare la volontà. La volontà agisce realmente avendo come motivo determinante la legge morale perché la coscienza di questa legge, in quanto coscienza della libertà, non è nient’altro che la coscienza dell’atto con cui la ragione determina, inevitabilmente, il volere.
Nella Critica della ragion pratica, la realtà oggettiva pratica della libertà è la realtà del motivo determinante e il motivo determinante è la pura legge: la causalità incondizionata in quanto puro fondamento di determinazione. La legge morale è principio di deduzione della causalità della ragion pura e, dunque, anche la legge della realizzazione della libertà. Ma la realizzazione è affidata a un pensiero che non ha nulla a vedere con la conoscenza. Il noumeno non è il correlato della coscienza intenzionale, né è possibile determinarne il contenuto dal punto di vista speculativo.57 La legge morale è tutto ciò che dell’incondizionato possiamo conoscere nel senso ch’essa è il modo in cui la libertà si pensa in noi, esseri finiti, costituendoci, all’istante, come esseri noumenici.58 La legge si presenta come un motivo determinante il volere tale che nessuna condizione sensibile può soverchiarlo. Ed è la sua assoluta posizione a testimoniare, presso un singolare soggetto-ricettacolo e grazie a una singolare forma di ricettività intellettuale,59 la realtà della (sua) libertà.
L’esperienza dell’incondizionatezza del comando morale è la libertà stessa60 perché la coscienza della legge sostituisce con successo l’idea metafisica dell’appartenenza al mondo intelligibile utilizzata nella terza sezione della Fondazione per dimostrare la realtà della libertà trascendentale: a differenza di quella essa funziona come una proposizione sintetica a priori, benché, come si è visto, nel 1788 la legge morale sia presentata anche come il surrogato dell’intuizione intellettuale. La legge morale fa quello che farebbe, se ci fosse, die intellektuelle Anschauung.61 Ed è pertanto solo nella misura in cui sono identiche nell’agire che legge morale e intuizione intellettuale coincidono nell’essere: fanno la stessa cosa, sono la stessa cosa. Ma cosa?
2.3. L’argomento platonico
Nella Critica della ragion pratica il fatto della ragione funziona come la nuova traduzione della vecchia idea, con cui veniva risolta la terza antinomia, di ‘cominciamento primo’ e, come tale, esso anticipa qualcosa dell’idea di ‘acquisizione originaria’ con cui Kant, nel 1793, darà conto della realtà della scelta suprema o fondamentale.62 Il Faktum conferma come ogni qualvolta sia questione della libertà ne vada del rapporto tra due mondi o nature,63 un rapporto che, proprio il Faktum, fa consistere in una mediazione immediata. Se quindi Spinoza è un kantiano “avant la lettre” (Fernández García, 1992, p. 149) è perché anche per il filosofo della beatitudo il soggetto etico o morale è, anzitutto, un soggetto diviso tra l’eterno e il tempo, l’essenza e l’esistenza, la mente e il corpo: un soggetto che, in ragione di ciò, si trova ad essere contemporaneamente suddito e sovrano, necessitato e libero, causato e causante.64 Come l’autonomia, anche l’immanenza è data (gegeben) e ordinata (aufgegeben) (cfr. Carnois, 1973, pp. 120-133) a un tempo, perché il paradosso dell’etica, per Spinoza e Kant, è tale per cui, pur essendo liberi, e proprio perché lo siamo, dobbiamo diventarlo.65
Eppure, la difesa di una simile libertà in opposizione alla cartesiana libertas indifferentiae non è l’unico presupposto etico condiviso da Spinoza e Kant. Ben più significativa è la circostanza per cui l’argomento impiegato da ciascuno per giustificare la realtà della libertà è il medesimo. Che la libertà sia la ratio essendi della legge morale e che questa, in una reciprocità davvero virtuosa e riconosciuta come tale da Kant già nel 1785, sia la ratio cognoscendi della libertà è, in effetti, una tesi che non può non richiamare alla memoria la teoria spinoziana della conoscenza adeguata. Quest’ultima, com’è noto, funziona come la ratio cognoscendi della dimensione eterna della mente perché l’eternità della mente, per Spinoza, non è altro che la ratio essendi della conoscenza adeguata (cfr. Mignini, 1994, pp. 52-54; Jaquet, 2015, pp. 104-106).
In alcuni dei suoi lavori, tuttavia, Scribano (2006, p. 280; 2009, p. 573; 2011, pp. 574 e sgg.) ha mostrato che l’argomento utilizzato da Kant e Spinoza per difendere la realtà della libertà è platonico, ossia che è in funzione di un terzo che, a quest’altezza, l’identità tra il ragionamento spinoziano e kantiano può essere sostenuta. Curiosamente, il terzo a cui là Scribano allude è il Platone sostenitore della syngeneia tra umano e divino respinta da Kant sin dagli anni ’60, vale a dire il Platone che afferma che la condizione di possibilità del passaggio o transizione dalla doxa all’idea è una certa medesimezza.66 Sia Spinoza che Kant suggeriscono che è nella misura in cui siamo eterni o noumenici che possiamo avere una conoscenza dell’eternità e/o un pensiero del noumeno. E se, per Spinoza, è in quanto siamo causati dall’idea di Dio che possiamo essere cause a nostra volta, per Kant, analogamente, è perché siamo già da sempre liberi che possiamo, grazie alla legge morale, riconoscerci tali “zu aller Zeit” (KpV A 37).67 In che modo?
La risposta che ciascuno offre a questa domanda è ancora una volta simile e ancora una volta platonica. Per Spinoza è fabbricandosi idee adeguate, e dunque riflettendo sulla necessità e l’universalità degli assiomi e delle proprietà comuni, che la mente giunge, all’improvviso, a sentire di essere eterna.68 Per Kant è impiegando il concetto razionale di causa noumenon in senso non conoscitivo che il soggetto scopre, all’improvviso, di appartenere al regno morale dei fini. In entrambi i casi, ovvero sia che questa conversio avvenga grazie all’azione di Dio come causa fiendi, sia che, al contrario, si effettui “in conformità di certe leggi dinamiche” (KpV A 72), ciò che è posto alla fine, come meta dell’atto, si scopre essere, nell’atto e solo grazie all’atto, nient’altro che la sua condizione o origine trascendentale. Il circolo platonico di posto-presupposto di cui si alimenta “la tesi della reciprocità” (Allison, 1990, pp. 201-213) e con cui Platone risolve il paradosso di Menone è quindi al cuore anche dell’etica moderna. Un’etica che, di conseguenza, non è solo un’etica razionalista.69
3. Kant con Spinoza
3.1. Il parallelismo di legge e libertà
Che il simile conosce il simile vuol dire che co-nasce insieme ad esso in quell’unico atto che Spinoza non esita a apprezzare per la sua potenza, facendone addirittura il perno del De libertate, e che Kant, al contrario, ha rifiutato in ragione della sua ineguagliabile pericolosità.70 Nella Critica della ragion pratica, la coscienza di sé e della propria esistenza in un ordine intelligibile non avviene in conformità a una particolare intuizione interna,71 ma grazie alla specifica virtus dell’idea dinamica di causa,72 e il Faktum der Vernunft è l’applicazione di questa categoria, assunta nel suo senso non conoscitivo, al sovrasensibile, vale a dire all’atto con cui la ragione causa la volontà.73 La sua condizione di possibilità è offerta, lo si è visto, dalla virtuosità del circolo che si instaura tra ratio cognoscendi e ratio essendi, perché per Kant, nel suo uso pratico, la ragion pura è causa, ossia fondamento della determinazione immediata della volontà (KpV A 29).
Per comprendere in che modo lo sia, la seconda navigazione74 in cui si risolve la seconda Critica ha richiesto di attrezzarsi di un puro pensiero della causalità: un pensiero tale per cui la causa (è) causa. L’idea dinamica di causa, per Kant, è causa perché la ratio cognoscendi è tale, a dire causa della conoscenza, in quanto è a sua volta mediata, e dunque causata, dalla ratio essendi: la causa noumenon. Che la causalità sia durch Freiheit significa che, dalla libertà, la causalità è, in qualche modo, prodotta; viceversa, che la libertà sia l’oggetto e/o il significato della categoria di causa vuol dire che la sua esistenza gli è, in qualche altro modo, subordinata. Nondimeno, quello che non bisogna dimenticare è che, nel Faktum, perciò così sorprendente, l’uso non conoscitivo è fatto di una categoria dinamica. Ed è questa, a nostro parere, la novità della seconda Critica (cfr. Campo, 2020a). Che non sia conoscitivo significa che non è mediato dall’immaginazione, mentre che quella sia dinamica significa che è in grado di assicurarci dell’esistenza dell’oggetto di cui è idea.75
Il che, tradotto nel linguaggio del Faktum, suggerisce che la ratio cognoscendi non è una ratio della conoscenza ma del pensiero (l’essere razionale non si intuisce come causa, ma si pensa tale comprendendo così che la ragione può autodeterminarsi; cfr. Gonnelli, 1991, p. 94) e che la ratio essendi non è una ratio dell’essenza, ma dell’esistenza: un’esistenza come “absolute Position der Sache selbst” (BWG 114). In fin dei conti, in quella inedita sintesi dell’eterogeneo tra legge morale e libertà che è il Faktum der Vernunft, la categoria di causa sembra funzionare proprio come una “condizione reale” (Deleuze, 1997, p. 94), e non solo possibile, dell’esperienza morale. La genesi reciproca di ratio cognoscendi e ratio essendi è una genesi simultanea in senso forte: quello richiesto dal parallelismo che Spinoza stabilisce tra pensiero ed essere e che è forte, giova ricordarlo, proprio perché l’eguaglianza degli attributi impedisce la derivazione unilaterale di uno, quello dell’estensione, dall’altro, quello del pensiero.
A differenza della genesi degli oggetti da parte dell’intelletto archetipico postulata, ad esempio, da Maimon, nel caso del Faktum la genesi immanente è la genesi di una realtà o esistenza concreta da parte di un’idea o essenza razionale, e viceversa. E se anche Kant, come Spinoza, la pensa simultanea76 è perché, all’esistenza della condizione -la coscienza della legge morale- corrisponde immediatamente l’esistenza del condizionato -la determinazione della volontà-. Nella seconda Critica, la realtà di una ragion pura pratica è provata da un pensiero dal quale si inferisce un’esistenza nello stesso istante in cui, da questa stessa esistenza, si trova esser causato. Per Kant, pensarci liberi e dunque condizionati in modo assoluto dalla legge; significa esserlo,77 perché il miracolo dell’etica è la contemporaneità tra il pensiero di una causa incondizionata e il suo ‘oggetto’ o ‘essere’; il fatto che la legge morale, coincidente col concetto razionale di causa, è simul la causa della conoscenza della libertà e l’effetto di questa, e la libertà è la causa dell’esistenza del concetto di causa incondizionata e, simul, l’effetto della conoscenza da questo permessa.
3.2. Genesi simultanea
Malgrado Kant ne abbia fatto il suo alter ego, è Spinoza ad offrire, nello scolio della proposizione undicesima del primo libro dell’Etica, un possibile significato del termine ratio. Le due rationes sono due cause (ratio seu causa), due condizioni, perché quella del parallelismo è un’azione causale reciproca in cui, però, il post hoc ergo propter hoc non vale.78 Come nel Faktum, anche in quella relazione che Spinoza indica servendosi esclusivamente dell’espressione simul et aequalis, ogni ratio non è senza l’altra pur rinunciando, quando è con l’altra, alla propria autosufficienza. ‘Parallelismo’ significa ‘implicazione reciproca’, la stessa di cui Hegel, nel terzo capitolo della terza sezione della Dottrina dell’essenza si serve per pensare l’identità operativa di esistenza ed essenza, forma e materia, ossia la mescolanza caratteristica della realtà effettiva: la Wirklichkeit. Come sintesi di sostanzialità e causalità, l’interazione o azione reciproca tra legge e libertà è tale per cui in essa è tolta la dualità ancora presente nelle relazioni sostanza-accidenti e causa-effetto, di modo che, come mostra il Faktum, due rationes differenti per natura conascono, in uno stesso tempo, con uno stesso atto. Ma come? E che significa che la causa svanisce?
Nella seconda Critica, il carattere auto-giustificante del Faktum permette l’autentificazione tanto della legge morale quanto della libertà trascendentale, e vi riesce, com’è stato da più parti notato, in uno stesso ma misteriosissimo tempo. L’azione reciproca della ratio essendi e della ratio cognoscendi è un’azione istantanea tale per cui, all’einziges Faktum, corrisponde immediatamente, e dunque non causalmente, l’einziger Begriff. Per Kant, cioè, non c’è prima la coscienza della legge morale e poi, in un secondo momento, la determinazione della volontà da parte della ragione. Legge morale e libertà si danno insieme in un unico fatto e si rivelano insieme in un unico concetto in quel miracolo etico che è la “transustanziazione” (Zupančič, 2012, p. 45).79
Nel Faktum, la forma agisce sulla materia -la volontà- ponendola, e questa conferisce alla prima la sua (unica) realtà. Kant lo lascia intendere quando afferma che il rispetto non segue la moralità ma coincide con essa, ossia suggerendo che la coscienza della libertà, in quanto coscienza della sua Zeitlosigkeit, non ha altra esistenza che nell’effetto/affetto, temporale, da lei stessa prodotto. Pur essendo mediata dalla legge morale, allora, questa stupefacente coscienza del noumeno, avvenendo in assenza di schemi, avviene anche in assenza di tempo: la fatticità della legge morale si trasmette per osmosi alla libertà -è la Reciprocity Thesis di Allison (1990, pp. 201-213; ma cfr. anche 1986, pp. 393-425)- e la deduzione di quest’ultima funziona come deduzione anche dell’altra -è la Disclosure Thesis di Ware (2014, p. 15)-.
Quella fra ratio essendi e ratio cognoscendi è una circolarità virtuosa nel senso che legge morale e libertà rinviano reciprocamente l’una all’altra e, dal momento che l’azione è reciproca, nessuna dice all’altra cosa fare (la causa ‘temporale’ svanisce). Il circolo esprime l’intrinseco accordo tra legge e volontà: la categoria di causa non precede il pensiero della libertà né questa viene prima di quella. La determinazione pratico-razionale della volontà non segue l’uso non conoscitivo di un concetto puro, ossia il pensiero di un essere che agisce secondo una legislazione universale in base a certe leggi dinamiche, ma lo implica.
3.3. L’esperienza della libertà
Nel 1788 la coscienza della libertà è la coscienza di qualcosa che è dato in modo assoluto sotto forma di legge, dunque l’esperienza di una radicale passività. È nella costrizione provocata dall’assoluta posizione della legge morale che possiamo inferire, con una sorta di “deduzione istantanea” (D’Anna, 2002, p. 137),80 la realtà della nostra libertà, sperimentando, al contempo, di essere noumenici (cfr. KpV A 73-74, 175 e 177). In qualsiasi momento, dice Kant, è possibile “impiantare un esperimento, come fa il chimico, con la ragione pratica di ogni uomo, per distinguere il fondamento di determinazione morale (puro) dall’empirico: basta che alla volontà empiricamente affetta si aggiunga la legge morale” (KpV A 65)81 o, per usare il linguaggio di Spinoza, basta che all’idea di un corpo esistente in atto si aggiunga l’idea della sua essenza.82 Come l’idea adeguata di Spinoza, infatti, anche la legge morale, e quindi il concetto razionale di causa, funziona come un reagente chimico83 che permette quel dosaggio delle parti noumeniche con quelle fenomeniche il cui risultato è la subitanea conversione dell’affetto: da passivo ad attivo, da patologico a pratico.84
Per Spinoza non capita di avere un’idea adeguata senza essere noi stessi causa adeguata dei sentimenti, attivi, che ne seguiranno. E anzi, ogni idea adeguata si esplica solo attraverso la nostra potenza di comprendere, posto che la conoscenza che libera, nell’Etica, è solo la conoscenza delle cause. Articolata razionalmente, essa mette capo, all’improvviso, a un’intuizione del tutto cui corrisponde, all’istante, lo stato di massima gioia e attività della mente-corpo: un affetto che, in tanto è espressione della nostra potenza, in quanto la causa adeguata è “quella il cui effetto è percepibile chiaramente e distintamente mediante essa” e in quanto, per Spinoza, si ha azione “quando avviene, in noi o fuori di noi, qualcosa di cui siamo causa adeguata, cioè quando segue dalla nostra natura qualcosa in noi o fuori di noi che può essere inteso chiaramente e distintamente solo per mezzo di essa” (Eth. III, def. 1).85 Nell’Etica, l’uomo buono o forte è colui che esiste così pienamente e intensamente da aver conquistato l’eternità durante la propria vita.86 E conquistare l’eternità significa essere conquistati dalla propria essenza, vivere solo secondo la propria potenza (che è una parte dell’infinita potenza divina; cfr. Eth. V, pr. 38-39).87
Analogamente, però, in pagine molto belle anche Kant precisa che, quando si tratta della legge della nostra esistenza intelligibile, non ha più senso parlare di azioni passate: “la ragione non riconosce alcuna differenza di tempo e domanda soltanto se il fatto appartenga a me come mia azione e, in questo caso, collega ad esso moralmente sempre la stessa sensazione, sia esso avvenuto un istante prima o molto tempo innanzi” (KpV A 177, corsivi nostri). Per Kant, la vita sensibile, rispetto alla coscienza intelligibile della sua esistenza, possiede “l’assoluta unità di un unico fenomeno che, non contenendo altro che fenomeni dell’intenzione concernente la legge, non deve venir giudicata secondo la necessità naturale […], bensì secondo l’assoluta spontaneità della libertà” (KpV A 177). Questo ‘giudizio’, sia per Kant che per Spinoza, è una ‘conoscenza’, né originaria, né archetipica simile a una intentio recta resa possibile dalla corrispondenza immediata di pensiero ed essere, essenza ed esistenza, libertà e necessità, noumeno e fenomeno.
3.4. L’idea di causa noumenon è un’idea adeguata
Per Kant il pensiero del noumeno è un pensiero senza analogia ma con oggetto reso possibile dall’uso non conoscitivo della categoria di causalità, un uso che, per come è emerso, è implicato nella stessa determinazione razionale della volontà: se la si pensa, dice Kant, la si pensa libera. Se la si pensa è perché si è liberi.88 Che la libertà sia trascendentale significa che è la condizione, la causa dello stesso pensiero della libertà, perché nella Critica della ragion pratica, come Fichte ha intuito per primo, la ragione è causa sui e, nello stesso senso, è causa omnium rerum.89 Che lo sia nello stesso senso vuol dire che lo è nello stesso tempo: l’azione reciproca di legge morale e libertà è un’azione simultanea tale per cui pensare la determinazione pratico-razionale della volontà significa già utilizzare la categoria di causa in modo non conoscitivo, già pensare l’essere che agisce secondo una legislazione universale in base a certe leggi dinamiche. Essere coscienti della ragion pura legislatrice significa, già, usare la categoria di causa non conoscitivamente, ma usarla non conoscitivamente, a sua volta, richiede che si sia rotto con la causa come categoria (cfr. Carabellese, 1969, pp. 347-348;90 Scaravelli, 1973, p. 144).
Quando, nel § 53 dei Prolegomeni afferma che l’omogeneità, nel caso delle idee dinamiche, non è necessaria, Kant compie una rivoluzione. E siccome la rilevanza della distinzione tra i due modi della sintesi in sede pratica è sottolineata da Kant stesso, non è un caso se poi, nel 1788, lo stesso requisito di eterogeneità sia fatto valere per render conto della straordinaria fecondità del concetto di libertà. Quest’ultimo dispiega la sua potenza non appena la causa cessa di essere un concetto, ossia quando, nella seconda Critica, Kant fa dell’uso non conoscitivo della categoria di causa la condizione di possibilità di un pensiero del noumeno. Con una simile mossa, la categoria di causa è elevata a qualcosa di simile a una condizione di effettività: se si pensa il noumeno, sembra ammettere Kant, vuol dire che lo si sta usando e, viceversa, se lo si può usare è perché il noumeno, la libertà, esiste, è reale. La trasformazione del soggetto (cfr. Franks, 2005, p. 298) è affidata all’idea di causa, la quale, quando non è più categoria ma una ratio, ha per dominio l’esperienza reale anziché quella possibile.
La causa-ratio produce effetti reali nel reale e il Faktum della ragione è la regola di questa produzione: un dispositivo o un’operazione in cui l’idea dinamica di causa assunta in senso non conoscitivo si comporta come l’idea adeguata all’interno della teoria della mente e della libertà di Spinoza. Al pari di questa, anche la legge morale è un’idea che, “in quanto è considerata in sé senza relazione a un oggetto, ha tutte le proprietà o denominazioni intrinseche di un’idea vera” (Eth. II, def. 4).91 Spinoza le dice intrinseche “per escludere quella che è estrinseca, vale a dire la convenienza dell’idea col suo ideato” (Eth. II, def. 4). E, privo di immaginazione e di schemi, anche l’uso non conoscitivo è un uso che vale in sé, a prescindere dal riferimento all’intuizione sensibile e/o dal rapporto con l’oggetto patologico della facoltà di desiderare. Per Kant, il puro pensiero della causalità è un pensiero il cui risultato è percepibile chiaramente e distintamente mediante esso senza raccordo ad altro. E se la trasmutazione dell’affetto del soggetto che se ne serve è immediata (cfr. Ivaldo, 2007, pp. 63-87) è perché il rispetto è il cursore affettivo della legge morale.92