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Signos históricos

Print version ISSN 1665-4420

Sig. his vol.23 n.46 México Jul./Dec. 2021  Epub Oct 04, 2021

 

Artículos

Una polemica controrivoluzionaria in Italia. Le sette segrete nelle riflessioni del Principe di Canosa

Una controversia contrarrevolucionaria en Italia. Las sectas secretas en las reflexiones del Príncipe de Canosa

A counterrevolutionary controversy in Italy. The secret sects in the reflections of the Prince of Canosa

* Università degli Studi di Milano. nicola.delcorno@unimi.it


Astratto:

Secondo il Principe di Canosa la Rivoluzione francese fu opera esclusiva di un complotto settario. Simile dinamica la ravvisò anche nei moti rivoluzionari del 1820 in Spagna e in Italia, denunciando una dimensione internazionale del fenomeno cospiratorio. Queste rivoluzioni non andavano infatti considerate come particolari sommovimenti politici, ma quale unica congiura iniziata con l’occupazione dei posti di potere da parte dei settari già all’indomani della Restaurazione. Tale processo era stato favorito, più o meno consapevolmente, dalla politica degli stessi sovrani restaurati tesa a coinvolgere personalità politiche coinvolte con le precedenti amministrazioni napoleoniche. Inoltre il Canosa -nel mettere in rilievo come le varie sette che turbavano la vita politica europea del tempo avessero la finalità comune di muovere contro il Trono e l’Altare come già accadde a fine ‘700- assegnava alla Massoneria la leadership, relegando la Carboneria ad un ruolo subalterno.

Parole chiave: Carboneria; Restaurazione; Regno delle Due Sicilie; Rivoluzione francese; Teoria del Complotto

Resumen:

Según el Príncipe de Canosa, la Revolución francesa fue obra exclusiva de un complot sectario. Esta dinámica también se vio en los movimientos revolucionarios de 1820 en España e Italia, denunciando una dimensión internacional del fenómeno de la conspiración. Estas revoluciones no debían considerarse como trastornos políticos particulares, sino como una única conspiración que comenzó con la ocupación de los puestos de poder por parte de los sectarios ya después de la Restauración. Este proceso había sido favorecido, más o menos conscientemente, por la política de los propios soberanos restaurados, con el objetivo de involucrar a figuras políticas involucradas con las administraciones napoleónicas anteriores. Además, Canosa, al destacar cómo las diversas sectas que perturbaban la vida política europea de la época tenían el propósito común de moverse contra el Trono y el Altar, como ya sucedió a finales del siglo XVIII, asignó a la masonería el liderazgo, relegando a la carbonería a un rol subordinado.

Palabras clave: Carbonería; Restauración; Reino de las Dos Sicilias; Revolución francesa; Teoría de la conspiración

Abstract:

According to the Prince of Canosa, the French Revolution was the exclusive work of a sectarian plot. This dynamic was also seen in the revolutionary movements of 1820 in Spain and Italy, denouncing an international dimension of the conspiracy phenomenon. These revolutions were not to be seen as particular political upheavals, but as a single conspiracy that began with the sectarian occupation of positions of power already after the Restoration. This process had been favored, more or less consciously, by the policy of the restored sovereigns themselves, with the aim of involving political figures involved with the previous Napoleonic administrations. In addition, Canosa, highlighting how the various sects that disturbed the European political life of the time had the common purpose of moving against the Throne and the Altar as it happened in the late Eighteenth Century, assigned Freemasonry leadership, relegating to the Carbonari to a subordinate role.

Keywords: Carbonari; Restoration; Kingdom of Two Sicilies; French Revolution; Conspiracy Theory

In uno dei suoi ultimi opuscoli, intitolato Ritratto, interamente dedicato ad una appassionata apologia della propria azione politica sia sul piano operativo che su quello teorico, Antonio Capece Minutolo, più noto come il principe di Canosa (1768-1838),1 si autodefiniva più volte un “non inteso Profeta”.2 L’incisiva formula precisava la sua controversa posizione all’interno dello stesso campo legittimista; il Canosa fu infatti oggetto di una sostanziale incomprensione diffusa nei rapporti con quelle autorità di cui peraltro era un paladino, così come difficili furono spesso le relazioni che ebbe con altri appartenenti al suo stesso schieramento politico.3

Nominato ministro di Polizia, dopo la restaurazione sul trono napoletano di Ferdinando I, il Canosa aveva dovuto accettare come, in seguito al Trattato di Casa Lanza, non fosse messa in opera quella purga di uomini e istituzioni del decennio napoleonico da lui auspicata; per questo motivo si era trovato in contrasto con il primo ministro Luigi de’ Medici, verso il quale nutriva già diffidenze e rancori che risalivano al precedente periodo dell’esilio siciliano durante il regno dei Napoleonidi. Il Medici era il fautore di quella politica, detta dell’amalgama che si proponeva una pacifica ricostruzione della società attorno alla figura del sovrano tramite l’inserimento nell’amministrazione statale delle nuove classi borghesi, emerse negli ultimi anni, accanto ai vecchi ceti nobiliari, restituiti solo in parte a posizione di prestigio sociale. Questa politica tendeva a pacificare il regno senza lasciare spazio a vendette e rivalità fra le diverse componenti della società, muovendo contro quella soluzione da redde rationem auspicata invece dal Canosa.4

La frattura fra i due divenne insanabile soprattutto sulla scelta del modo di affrontare la setta dei Carbonari. Il Medici era propenso ad un’azione moderata per non danneggiare il processo di pacificazione dopo i travagli e le violenze rivoluzionarie, mentre il Canosa intendeva creare una sorta di occulta milizia filo-governativa che combattesse la Carboneria al di fuori dei vincoli legali. Uscito perdente da questo scontro intergovernativo, il Canosa fu costretto a dimettersi, e quindi ad abbandonare il regno napoletano, anche in seguito alla scoperta dei sedicimila permessi di porto d’armi concessi dal suo ministero, probabilmente destinati ad armare i militanti di questa organizzazione settaria controrivoluzionaria, chiamata dei Calderari.5

Trasferitosi in Toscana, qualche tempo dopo, nel maggio del 1820 sotto la falsa indicazione di Dublino e fingendo che lo scritto fosse dell’amico Luigi Torelli, il Canosa fece uscire i Piffari di montagna, il suo scritto più famoso -e che si rivelò un discreto best-seller per l’epoca, tanto da essere ripubblicato in varie edizioni in poco tempo- e dato alle stampe con la precisa intenzione di rispondere a determinate critiche che gli erano giunte dalla stampa europea.6 In questo pamphlet, oltre a una diffusa apologia della sua azione governativa, il principe napoletano esponeva i capisaldi del proprio pensiero politico; ma ciò che risaltava di più era appunto la “profezia” che la politica “amalgamatrice” adottata dal Medici avrebbe portato inevitabilmente ad un moto rivoluzionario nel regno della Due Sicilie. In un memoriale scritto agli inizi degli anni trenta per giustificare la sua condotta di fronte al nuovo sovrano napoletano, Ferdinando II, il Canosa si autodefiniva una “vera Cassandra” dato che la sua profezia non solo era rimasta inascoltata, ma aveva suscitato molti risentimenti fra gli stessi legittimisti.7

La predizione risultò quanto mai tempestiva, dato che i Piffari uscirono tre mesi prima dell’inizio della cospirazione carbonara del luglio 1820; e tale previsione diede al Canosa prestigio non solo presso il suo sovrano, ma pure presso le corti d’Italia e d’Europa. Con la fine dell’esperienza costituzionale napoletana in seguito all’intervento militare austriaco, Ferdinando I richiamò il Canosa nel ruolo di ministro di polizia, affidandogli una maggiore libertà d’azione. Ciò offrì al Canosa l’occasione per scatenare una brutale reazione: arresti non notificati, noncuranza di ogni limite legale, nuovi progetti d’intesa con la setta dei Calderari, e perfino uso della frusta e invio degli avversari politici al manicomio d’Aversa furono i sistemi di cui si servì per ristabilire l’ordine, circondandosi quali collaboratori di persone dubbie e violente come Francesco Nicola De Mattheis, suo intendente in Calabria. I metodi canosiani, pur approvati dal sovrano, suscitarono forti critiche da parte degli ambasciatori delle nazioni della Santa Alleanza e dell’Inghilterra, cosa che costrinse in breve tempo il sovrano ad allontanare definitivamente il ministro prima dal suo impiego e poi addirittura dal regno nel maggio 1822.8

Non solo nei Piffari, ma più generale nei suoi scritti, il Canosa ebbe spesso modo di sottolineare l’ampia portata del fenomeno cospiratorio, attribuendo un rilievo e un senso assai articolato al termine rivoluzione; non lo limitava infatti solamente all’idea di violento e totale cambiamento delle istituzioni politiche, ma lo ritrovava nelle linee palesi, ma più frequentemente occulte, di un fenomeno multiforme che mirava a trasformare in maniera compiuta le idee e i costumi di intere popolazioni, espandendosi a mo’ di contagio attraverso tutti i paesi. Dalle sue pagine emergeva, anche se spesso avviluppata tra le tortuosità del pregiudizio e del sospetto, oltreché del risentimento, la convinzione che la Rivoluzione francese non fosse stata altro che il culmine traumatico di una svolta universale e lungamente predisposta, attraverso un’oscura trama, da forze destabilizzanti, che miravano ad erigere a sistema la demagogia e la miscredenza. Tale operazione aveva trovato il suo temporaneo trionfo nella Rivoluzione francese; ma anche dopo la caduta del Direttorio, lo spirito rivoluzionario non appariva ancora sconfitto, neppure sotto il dispotismo imperiale di Napoleone, anzi continuava la sua attività eversiva, pur sotto aspetti e uomini diversi, ma con un punto d’arrivo sovvertitore dell’umana facoltà sostanzialmente simile; non faceva infatti differenza se la cospirazione si svolgesse all’opposizione e in clandestinità, oppure al riparo e sotto l’egida del potere istituito.

Dopo che era stato liquidato il Bonaparte, la congiura settaria appariva infatti saldamente in marcia, favorita apertamente, quanto incredibilmente, agli occhi del Canosa, dalle stesse risoluzioni politiche del Congresso di Vienna, perché considerate compromissorie nell’approccio controrivoluzionario, dal momento che riducevano la Restaurazione a mero fatto istituzionale, annullandone ogni significato di rivincita etico-politica di fronte ai principi rivoluzionari.9 Per rimarcare il costante processo evolutivo dell’esprit sovversivo, il Canosa sottolineava invece una linea di continuità fra i giacobini settecenteschi e i liberali dell’Ottocento senza notare sostanziali differenze ideologiche, ma limitandosi a ribadire che “allora chiamavansi giacobini, ed ora fastoso nome di liberali hanno assunto”.10

Per aver svelato all’opinione pubblica italiana la dimensione occulta della cospirazione, in tutti i suoi intrighi, maneggi, complicità -tema peraltro assai consueto nella propaganda reazionaria europea coeva-11 il Canosa si paragonò al giornalista viennese Leopold Hoffman e al gesuita francese Augustine de Barruel, ossia a coloro che alla fine del secolo precedente avevano denunciato le dimensioni di quel vasto e articolato complotto che era stato alla base della Rivoluzione francese, una chiave di lettura poi proseguita per buona parte del secolo successivo;12 così infatti ammetteva lui stesso, senza falsa modestia: “nessuno forse meglio del Principe di Canosa conosce le segrete società, e poteva metterle in mostra, come un dì fecero Hoffman e Barruel”.13

Le accuse dall’estero

Il 18 settembre 1819, il settimanale londinese The Literary Gazette pubblicava un breve articolo intitolato The Carbonari. Scopo del suo redattore, il simpatizzante tory William Jerdan, era quello di offrire ai propri lettori una panoramica sul fenomeno italiano dei carbonari e dei calderari, che, per usare le sue stesse parole, “now cover Italy, and excite the attention of its governments”. La Literary Gazette era una rivista molto letta soprattutto fra le classi medie, e puntava per una maggiore diffusione ad un giornalismo basato più sulle impressioni forti che sull’analisi ragionata.14

Anche questo articolo non pare venir meno a tale linea editoriale. Si legge infatti nelle prime righe che i carbonari facevano parte di un più vasto disegno cospirativo europeo sorto dagli effetti della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche: “the revolutionary principle is now pretty universal, for we have Reformers at home, Jacobins in France, Liberales in Spain, Unions of Virtues in Germany, and, lastly, Carbonari in Italy”. Il redattore proseguiva definendo la Carboneria una setta al tempo stesso politica e religiosa -“their principles are founded on the purest maxims of the Gospel”- e per questo il loro obiettivo era farla definitivamente finita con il dispotismo, dal momento che proprio Gesù Cristo era risultato “the most deplorable and the most illustrious victim of the despotism”. Pertanto i carbonari, nelle cui fila militavano persone appartenenti ad ogni ceto e condizione sociale, predicavano una moralità e una eguaglianza evangelica, con il risultato di avere convertito a tale causa anche molti dei briganti che infestavano le montagne del meridione: “so greatly had they been edified by the sacred word!”.

Buona parte dell’articolo era dedicata alla nascita della Carboneria, sorta secondo il redattore inglese per volontà della regina napoletana Maria Carolina di combattere segretamente Murat. Ma una volta che Maria Carolina fu costretta a partire per Costantinopoli a causa delle controversie politico-strategiche con gli inglesi in Sicilia, i carbonari si trovarono spiazzati, senza più un punto di riferimento sicuro, e così avvenne una scissione nella setta: da una parte gli elementi progressisti che rimasero fedeli al nome di carbonari, e che volevano una più globale riforma della società; dall’altra i sostenitori dei Borboni, che presero il nome di calderari. Con la Restaurazione e il regno di Ferdinando I, sovrano delle Due Sicilie, tale frattura si evidenziò ancor di più anche per il comportamento proprio del principe di Canosa, che, a detta di Jerdan, si servì dei calderari, spesso le stesse persone che avevano partecipato alla reazione sanfedista del ’99, da lui stesso ribattezzati “Calderari del Contropeso”, per combattere i carbonari con le medesime armi, ossia quelle della segretezza, dell’illegalità, della lotta armata, e non con gli strumenti del potere statale, creando così una sorta di squadrone paramilitare alle sue dipendenze. Tale strategia però fallì; non solo il sovrano allontanò il Canosa dal suo posto e dal regno, in disaccordo con i suoi metodi e temendo l’accrescersi della sua influenza negli equilibri interni del regno: “it was high time; for Canosa would soon have been more king than Ferdinand”. I carbonari reagirono prontamente serrando le loro fila, aumentando di numero e armandosi di tutto punto.

La seconda parte del breve scritto di Jerdan riportava un riferimento ad un altro articolo pubblicato sulla rivista francese, la Bibliothèque Historique, dove già era comparsa una simile cronaca dall’Italia, che aveva, fra le altre cose, paragonato i carbonari, setta trasversale che accomunava il ricco al povero, il nobile al plebeo, ai primi cristiani pronti a sopportare ogni tipo di persecuzione pur di diffondere il loro credo. L’articolo si concludeva con un riferimento alle motivazioni che avevano portato diversi nobili ad abbracciare la causa settaria; spogliata del suo antico prestigio politico e sociale l’aristocrazia covava “a deep resentment” verso i colpevoli di tale emarginazione mai provata fino ad allora, ossia verso i propri sovrani; ed era proprio per questo che “it is among this class that we find the most zealous Carbonari”.

Sul periodico francese era infatti uscito nel luglio dello stesso anno, un articolo sui carbonari, che era appunto servito da fonte allo Jerdan, in cui veniva ripercorsa la genesi e gli sviluppi della Carboneria, anticipando ciò che avrebbe poi scritto la rivista londinese. Vi erano dei riferimenti anche ai calderari, presentati come una sorta di filiazione della Carboneria, anche se in quel momento, passati al servizio dei governi, la combattevano duramente, mossi da un odio fratricida, peraltro caratteristico secondo l’autore dell’indole italiana. Divenuta la Carboneria una setta fin troppo eterogenea qualitativamente e quantitativamente, da parte dei suoi vertici fu deciso l’allontanamento di quegli elementi che avevano destato sospetti per il loro atteggiamento equivoco; e furono proprio questi epurati a formare i calderari:

Ceux qui s’y sont trouvés compris ont formé une association nouvelle sous le nom de Calderari (Chaudronniers), et ils sont devenus les auxiliaires des governements qui persécutent ceux qui étaient autrefois leurs frères. Les Carbonari et les Calderari, malgré la communanté de leur origine, se haïssent aujourd’hui comme se hait en Italie.15

A differenza della Literary Gazette, non si faceva in questo articolo alcun riferimento esplicito o implicito al Principe di Canosa.

Cose simili, soprattutto per quanto riguarda la genesi della Carboneria e il ruolo del Canosa nella controsetta dei calderari, le aveva scritte in quello stesso anno, il 1819, un diplomatico russo, il conte Grégoire Orloff, il quale nei suoi Mémoires sul regno di Napoli aveva in special modo puntato il dito contro il Canosa definendolo “homme de parti”, e quindi non di Stato -“il protégeait les partis” e non le istituzioni- come invece avrebbe dovuto essere un ministro di polizia, dal momento che aveva segretamente armato un gruppo di uomini, avidi di sangue e di denaro altrui, arruolati soprattutto fra la classe più umile, per sconfiggere i carbonari: “il fit acorder, à la plus basse classe du peuple, le port d’armes […] il arma des hommes toujours avides de sang, toujours prêts à s’enrichir des dépouilles des honnêtes-gens”.16

La risposta dei piffari di montagna

Questa improvvisa e internazionale fama non fece piacere al Canosa, e la sua risposta fu pertanto pronta, concretizzandosi nel già citato opuscolo I piffari di montagna; per definire in poche parole questo pamphlet ci si può rifare alla definizione che ne diede Walter Maturi nella biografia dedicata al Canosa: “I piffari di montagna non sono un libro di filosofia politica, ma sono il risultato d’una contaminatio tra un frammento d’autobiografia e un manifesto di tendenza politica”;17contaminatio, occorre aggiungere, fortemente polemica, come si può dedurre dal titolo stesso che si richiamava ad un componimento poetico di metà settecento del filologo toscano Giovanni Lami (con lo pseudonimo di Cesellio Filomastige), I piffari di montagna che andarono per sonare e furono sonati. Con la sua pubblicazione, il Canosa si riprometteva infatti di “suonarla” a quei pifferai stranieri che invece di raccontare le manovre sovversive dei carbonari, avevano tentato di metterlo in cattiva luce quale ministro-settario, fautore di una particolare controrivoluzione certamente non contemplata dalle leggi e dalle istituzioni dello Stato borbonico, così come da quelle di nessun altro Stato evoluto.

Citando esplicitamente il Barruel, il Canosa affermava ciò che in fondo era già stato scritto dal giornalista inglese: “i vostri radicali, i giacobini, i liberali, gli illuminati, quelli delle Unioni di Virtù, della Banda nera ed i carbonari non sono precisamente se non la cosa stessa e identica”; sono “come gli stessi frati vestiti di diversi sacchi, ma militanti tutti sotto lo stesso vessillo”, ossia quello rivoluzionario.18 Qualche pagina dopo, il Canosa riprendeva il concetto, per lui fondamentale, di un’unica matrice sovversiva delle varie società segrete europee, dicendosi sicuro del fatto che “radicali, giacobini e carbonari sono sinonimi”.19 Una indiscutibile dimostrazione della internazionalità di un identico fenomeno sedizioso era fornita dal fatto che i carbonari, assieme ai loro alleati europei dalle diverse denominazioni, non combattevano unicamente i governi italiani e la dominazione austriaca nel nostro paese, ma ogni governo legittimo, qualunque esso fosse.

Eccettuata tale convergenza di opinioni sulla natura della internazionale settaria, l’articolo della rivista londinese veniva sezionato e fatto a pezzi nel resto dei Piffari. Innanzitutto, notava il Canosa, i carbonari non potevano certo definirsi dei buoni cristiani. Erano infatti degli atei, che si fingevano devoti per ingannare la fiducia della popolazione, proprio come fa -secondo un curioso paragone escogitato dal Canosa- la contadina quando, per il divertimento dei suoi bambini, gioca con i maialini, ben sapendo però che poi li sgozzerà per mangiarli. Ma se questo comportamento appariva ammissibile con gli animali, ciò non doveva accadere anche con gli uomini, come invece pianificavano i carbonari. Era pertanto questa una dimostrazione che il carbonaro era ateo, infatti “non essendovi Dio” il settario si sentiva senza “diritti, né doveri” verso il prossimo, e quindi si “serve degli uomini, per le stesse teorie, nel modo stesso che si serve delle bestie”, ossia a suo uso e consumo; nel caso specifico per continuare a tentare di sovvertire l’ordine costituito, mentendo sulle sue reali intenzioni. Come accade per i poveri sopraccitati maialini, “ecco la sorte che si aspetta a quei corbelli, che si fanno burlare dai radicali, dai giacobini, dai carbonari. A suo tempo un coltello nella gola”.20

Per questa operazione demistificante, il Canosa paragonava i carbonari ai farisei, definiti perciò i “carbonari di quei tempi”. Come i farisei avevano abilmente corrotto la società ebraica del tempo tanto da spingerla a chiedere la crocifissione di Cristo, per arrivare al loro scopo di “rendere infelice sino nella più remota discendenza” il genere umano, in maniera simile si comportavano i carbonari del xix secolo quando “sovvertono [il popolo] per farlo gridare libertà, per farlo poi cadere sotto la tirannide del loro dispotismo”. E “seguitando il confronto dei vecchi con i giovani carbonari”, tanti Ponzio Pilato si erano dimostrati quegli uomini di Stato, i quali “da cinquant’anni a questa parte”, continuava il Canosa, avevano creduto di tenere a bada il fenomeno settario con continue concessioni.

Se il Papa aveva vietato ai suoi fedeli sotto pena di scomunica “l’unirsi in segrete unioni e l’iniziarsi al Carbonarismo”, come potevano allora i carbonari dirsi cristiani e cattolici quando disobbedivano ai precetti del capo spirituale della Chiesa. Il fatto stesso di congiurare “costantemente e per istituto contro le somme Potestà” era un ulteriore attestato della programmatica anticristianità della Carboneria, dal momento che, ricordava il Canosa, “chi non obbedisce ai suoi superiori, anche discoli, come dice l’Apostolo, non può chiamarsi cristiano”;21 dove il riferimento canosiano correva alla famosa tredicesima epistola di San Paolo ai romani. Si capisce così come agli occhi del Canosa fosse assai difficile rintracciare fra i carbonari tutta quella “purest morality” che il giornalista inglese assicurava essere uno dei tratti caratterizzanti di tale associazione.

Ma probabilmente ciò che stava più a cuore al principe napoletano nello scrivere questo opuscolo era difendere la sua regina, Maria Carolina di Napoli, dall’accusa di essere stata l’ispiratrice di tale setta. Era vero, ammetteva il Canosa, che anche Maria Carolina in un primo tempo fu in qualche modo “burlata dai Massoni e dagli Illuminati”, come molti altri sovrani, ma fu cosa di un attimo perché la Rivoluzione francese le fece aprire gli occhi, prima “affascinati” sul tenebroso mondo settario, tanto che “ordinò in Napoli la traduzione e la ristampa delle Memorie per servire alla Storia del Giacobinismo” del Barruel.22

La Carboneria era stata una creazione straniera, spiegava il Principe, e più precisamente tedesca; da lì si era trasferita in Francia ai tempi della Rivoluzione, dimostrandosi “una delle più furenti contro il Regio potere”. Con la repressione di Napoleone contro le sette, “i misteri della proscritta società” arrivarono in territorio napoletano nel 1810 per mezzo di un profugo francese. Nel meridione italiano la Carboneria attecchì soprattutto in ambiente militare, proseguiva il Canosa, rimanendo però subalterna rispetto agli eventi politici contemporanei: “tutte le sue furie non oltrepassarono le oscure pareti delle tenebrose loro unioni, sfogandosi in vane declamazioni”, anche perché “l’attivissima polizia francese” le teneva sopra gli occhi, soprattutto una volta scoperto che, si faceva maliziosamente notare, “la libertà, l’eguaglianza, e l’indipendenza erano i cardini sopra i quali aggiravansi i misteri”. Sempre strettamente controllati, e ridotti alla inoperosità da Murat, i carbonari pensarono che fosse giunto il loro momento quando iniziarono le difficoltà per il cognato di Napoleone, ma il loro attivismo finì per concretizzarsi solamente in un tentativo fallito di entrare nelle grazie di Ferdinando, sovrano di Napoli; tentativo compiuto più che altro nel timore di vedersi poi vittime della reazione popolare antifrancese, in quanto comunque compromessi con la Rivoluzione francese. “La particolare vendetta, e l’interesse di salvarsi dall’ira popolare, che minacciava in questo secondo incontro una irruzione contro di essi, peggiore ancora di quella del ‘99” furono gli unici motivi che avvicinarono, per così dire, i carbonari alla corte borbonica;23 altro che, ci teneva a precisare il Canosa, Maria Carolina quale eminenza grigia della società segreta: “essa non ebbe nulla di comune coi carbonari”.24

Rifiutata dai sovrani, la Carboneria era comunque riuscita a penetrare a palazzo grazie agli appoggi più o meno palesi di potenti uomini di Stato. Nei Piffari vi era già un chiaro riferimento alla complicità dei ministri napoletani, il già citato Medici e Donato Tommasi; altrove questa accusa fu più esplicita, come ad esempio nell’opuscolo diretto a confutare le accuse del liberale Luigi Angeloni contro Maria Carolina,25 oppure in un articolo comparso sul giornale di Modena La voce della verità.26 Nei Piffari il Canosa notava come “la sola pubblica voce” già sussurrasse che “l’uno tanto che l’altro sceneggiarono moltissimo nelle segrete società, che favorirono sempre, e tradirono, a seconda che veniva loro consigliato dal particolare interesse”; nonostante tale vox populi il Canosa preferiva sospendere il giudizio, rimarcando però i danni politici che la loro condotta governativa aveva prodotto:

[…] essi però, sia per simpatia, sia per uniformità di sentimenti, sia perché indotti dalla più sciocca politica, diventati in Napoli ministri dopo il ritorno del re, furono quelli, che scossero dall’avvilimento coloro, che, dimostratisi nel ‘99 e nel decennio i partigiani più accaniti della rivoluzione e dei francesi, tenevano come si suole dirsi la coda tra le gambe, né ardivano innalzare tampoco il loro pensiero sino al dovere nuovamente figurare, e divenire i confidenti del Ministero di Ferdinando.

Il risultato di tale atteggiamento era secondo il Canosa raccapricciante nella forma e nella sostanza: “Napoli vide con orrore e voltastomaco non solo la virtù avvilita, e il vizio premiato, ma fraternizzare ancora i due ministri colle persone le più perniciose alla Monarchia, e le più colpite dalla pubblica indignazione”.27

L’errore dei due ministri era stato quello di aver dato, buona o cattiva fede che fosse la loro, credito alle blande promesse dei carbonari, che a parole avevano sostenuto generiche riforme in un contesto monarchico costituzionale, e di aver adottato conseguentemente una politica tesa a coinvolgerli nella governo della società; Medici e Tommasi furono infatti i fautori di quella politica cosiddetta, come si è visto, della “amalgama” perché non respingeva tutto ciò che era stato prodotto dal passato rivoluzionario, ma cercava appunto di amalgamare il vecchio con il nuovo, i vittoriosi conservatori con gli sconfitti rivoluzionari; quando invece nella memoria difensiva sopracitata parlando il Canosa ricordava che “non erasi mai amalgamato coi nemici della buona causa”.28 Le moderate intenzioni dei carbonari erano però, secondo il Canosa, solamente dei depistaggi per presentarsi con il vestito buono di fronte ai sovrani appena restaurati e alla pubblica opinione ancora scossa dalle temperie rivoluzionarie; lo scopo dei settari era altro, ben più sovversivo e devastante per gli equilibri della società. Per avvalorare la sua convinzione il napoletano invitava a ricordare quanto di simile era accaduto in Francia solo mezzo secolo prima:

[…] or che si cerca nel momento dai radicali, dagl’illuminati, da quelli della Banda nera, dell’Unione di Virtù, dai liberali, e dai carbonari? Precisamente lo stesso che volevasi dai giacobini francesi […]. I sofisti del secolo XVIII non dissero giammai che bramavano la democrazia; essi dicevano di non desiderare altro che una monarchia moderata; in seguito cominciarono a parlare di costituzione, e camminando di grado in grado passarono al regicidio. Cosa fecero i ministri di Luigi XVI per salvare quell’infelice monarca dalla bufera? Cosa si fa attualmente da molti gabinetti per evitare il nuovo incendio?29

Nelle intenzioni del napoletano, il paragone avrebbe dovuto far riflettere le autorità sui reali propositi della Carboneria, se queste stesse autorità non fossero state in qualche modo conniventi delle società segrete.

Il Canosa pubblicò i Piffari nel maggio del 1820, la rivoluzione napoletana scoppiò qualche mese dopo;30 così fu facile farsi passare per l’inascoltato profeta di una sciagura politica preventivabile, ma ignorata da ministri ignavi, tremebondi, o peggio ancora complici. Così infatti ricordava in un articolo sulla Voce della Verità nel 1832:

[…] la sola comparsa dei Piffari di montagna […] gettò il liberalismo nella più terribile costernazione. Di fatti se quell’opuscolo profetico fosse stato letto, e come conveniva ponderato, prese che fossero state le indicate misure, l’albero infame della licenza sarebbe rimasto inaridito: conciossiaché se il suo nutrimento non lo riceve che dal sistema delle mezze misure, e dall’amalgama, questo si sarebbe seccato interamente. Così ove si fonda la forza del falso liberalismo? Nella ignavia di coloro che sono destinati di combatterlo. I settari si fanno forti e baldanzosi si mostrano perché si sono avveduti che taluni politici li temono.31

Carboneria, massoneria e altre sette

Pur non avendo più dedicato uno scritto a questi specifici argomenti, di carboneria e di massoneria, ma più in generale di sette segrete, il Canosa tornò ad occuparsi a vario titolo anche in altri suoi opuscoli, così come in alcuni articoli pubblicati su riviste controrivoluzionarie del tempo, per ribadire sostanzialmente quelle stesse cose, che già aveva esposto nei Piffari . Ad esempio, una vigorosa denuncia della congiura settaria, e delle insospettabili complicità istituzionali di cui potette godere, trovava spazio nel già citato opuscolo contro l’Angeloni; secondo il Canosa i moti rivoluzionari napoletani e spagnoli del ’20, come quelli torinesi del ’21,32 non dovevano essere considerati come un’azione a sorpresa, come un fatto improvviso, per cui difficile poteva risultare rispondere prontamente, ma come il frutto di una meditata congiura settaria, già messasi in moto all’indomani della Restaurazione tramite una capillare occupazione dei palazzi del potere, senza che i sovrani si rendessero pienamente conto di aver ridonato in questo modo fiato e fiducia al mostro rivoluzionario, appena sconfitto nella persona di Napoleone, quando invece necessitava sfruttare il momento per abbatterlo definitivamente.

La difesa delle istituzioni legittime era stata affidata ad uno “strano sistema” per mezzo del quale chi era preposto a vigilare sull’ordine politico, avrebbe dovuto denunciare se stesso e i suoi amici come sovversivi. Ma “potevano questi sorvegliare, ed accusare loro medesimi, i di loro confratelli, i di loro collegati, i di loro compagni” si chiedeva retoricamente il Canosa; un paradosso a cui ovviamente non si giunse, e da qui il vittorioso svolgersi dei nuovi moti rivoluzionari, a partire da quella spagnolo del gennaio 1820 in poi.33 Facile era quindi immaginare una “inevitabile rovina” per le monarchie, ma in realtà solo pochi lo fecero, o almeno ebbero il coraggio di farlo pubblicamente; fra questi il Canosa orgogliosamente si autocitava ricordando soprattutto i suoi Piffari, per poi continuare coll’ammettere che se era scontato prevedere lo scoppio insurrezionale, più difficile era riuscito comprendere tutte le componenti dell’intricato mosaico sovversivo trans-nazionale:

[…] se un politico però poteva far agevolmente un tale vaticinio, non era ugualmente facile conoscerne le trame, le manovre, e gli intrighi, che passavano segretamente tra i ribelli per la sopra esposta ragione, che tra questi si trovavano gli impiegati di ogni dipartimento, che quasi tutti alla rivoluzione appartenevano.34

Al Canosa premeva inoltre ricordare in quale clima di ostilità governativa si muovessero tutti “gli amici della buona causa”, che, come lui, avevano osato denunciare il complotto: “canosini, calderari, allarmisti, teste calde” erano infatti gli epiteti riservati agli smascheratori delle trame settarie, e trattati per questo da “forsennati ed effervescenti, pericolosi alla pubblica pace” dalle autorità. Non si poteva quindi affermare, concludeva il Canosa in polemica con l’Angeloni, che “la setta de’ carbonari trionfò con il segreto”; le linee portanti e gli obiettivi del loro piano già si conoscevano perfettamente, e anzi furono agevolate, soprattutto dai due ministri Medici e Tommasi. Caustico, come spesso accadeva, era l’epilogo del Canosa: “se la rivoluzione del 1820 fu di facile impresa, la ragione è che coloro che dovevano arrestarla ed annientarla, pienamente la favorirono”.35

Successivamente, sempre nel corso del medesimo opuscolo, il Canosa cercava di evidenziare la peculiarità del fenomeno carbonaro, rispetto ad altre manifestazioni rivoluzionarie. Il principe napoletano notava così che i carbonari “sono avversi ad ogni potere”, qualunque esso sia, avendo di mira unicamente “la rapina e l’anarchia”, compendiate nella formula della “legge agraria”, ossia “la comunione di tutto”. Non era quindi per nulla vero che fossero murattisti; anzi covavano verso il cognato di Napoleone un odio profondo, peraltro ricambiato con dure persecuzioni; se in qualche modo lo avvicinarono, ciò era avvenuto soltanto nella speranza di poterlo usare “come mezzo onde poter giungere alla tanto desiderata anarchia, non mai per averlo come re”. Il Canosa paragonava per questo i carbonari ai giansenisti; anche questi ultimi, “congiurati a mettere la discordia tra i due poteri”, si muovevano disinvoltamente fra trono e altare, a loro unico vantaggio, per arrivare alla soluzione finale: “siccome essi odiavano ogni potere, ogni potere anelavano scomparisse dalla società”.36

In un altro fra i suoi pamphlets più noti, l’Epistola contro Pietro Colletta, il Canosa tornava invece sulla comunanza di interessi e strategie rivoluzionarie delle varie sette operanti in Italia e in Europa,37 affidando una sorta di leadership fra queste alla massoneria; “quella che ha fatto, fa e ordinerà sempre tutte le rivoluzioni senza che veruno si avveda, che essa lavori, senza fare che alcuno si accorga esser lei quella che disponga tutti i travagli”.38 E più sotto ribadiva questa convinzione della massoneria quale agente più pericoloso della rivoluzione, mentre le altre sette, ben meno minacciose, finivano quasi per fare da supporto di secondo piano al disegno sovversivo dei massoni:

[…] così io ho sempre riso quando sentiva infuriare contro i carbonari, i pellegrini bianchi, i cavalieri perfetti e gli stessi illuminati, e quanta mai peste settaria seppe Satanasso vomitare dalle infuocate bolge degli abissi per rendere di questa terra un vero inferno. Rideva io e rido di tutto senno. Non ebbi mai altro in mira quando era ministro di polizia e sedeva nel consiglio di Stato che i soli massoni. È vero che tutte le segrete società sono esizialissime e antisociali. Non potendole però distruggere tutte mi deciderei ad estirpare la sola framassoneria.

Le altre sette, proseguiva il Canosa, risultavano pertanto solo delle “marionette”, facili da rendere inermi una volta tolto di mezzo il “giocoliere” massonico; proprio per questo l’autore si sarebbe accontentato “che piuttosto tutte rimanessero le proscritte e criminose società segrete, ma che andassero all’inferno i soli massoni”.39 In uno scritto rimasto a lungo inedito, il Canosa stimava che fosse opportuno creare una sorta di “Massoneria Cattolica, che sotto lo stesso alto e indispensabile segreto” cercasse di avvicinare “la razza dei massoni accecati” per “persuaderli degli errori, farli regolarizzare sotto di una istituzione” in modo renderli così “utili ai Re e alla religione cattolica”; da rivoluzionari i massoni si sarebbero convertiti in una “società di uomini probi, fedeli e congiurati favore della vera religione, e dello Stato”.40 In un altro scritto, anche questo edito postumo solamente negli anni settanta del XX secolo, il Canosa, oltre a sottolineare una differenza fra la Carboneria del nord Italia con quella meridionale, ribadiva una certa subalternità della Carboneria alla Massoneria.41

Per quanto riguarda il ruolo e il peso, anche gerarchico, della Carboneria all’interno della galassia settaria va infine ricordata una lettera del Canosa a Giuseppe Torelli dell’agosto del 1824, in cui il principe napoletano la declassava ad ultima ruota del carro, come un qualcosa di spregiato dagli stessi altri settari:

[…] essi [i carbonari] formano i reggimenti dei galeotti che si trovano negli eserciti della rivoluzione. Sono quei corpi di soldati indisciplinati che si espongono a tutti i più sicuri pericoli, riputandosi un acquisto il perderli. Gli illuminati e i massoni non che altri settari fingono nulla avere in comune con essi.42

Come si è già detto, simili riflessioni ancora sull’argomento sono presenti qua e là nella sua vasta produzione a stampa; considerazioni svolte secondo una consueta linea interpretativa. Pietra angolare del progetto settario risultava, secondo il Canosa, lo “sbarbicare ogni religione” dalla società; e così i carbonari s’impegnavano, assieme ai loro sodali europei, “di suscitare nel cuore dei proseliti, una rabbia accanita contro di esse, e soprattutto contro la Cattolica” attraverso una capillare propaganda che non risparmiava “false narrazioni e sofismi” per rendere gli uomini “simili a bruti”. Contro tale forma di proselitismo, che si diffondeva sempre di più, proprio a mo’ di “epidemia e contagio”, il Canosa richiedeva un deciso intervento censorio delle autorità preposte; la “salute morale” dei cittadini doveva interessare i governanti almeno quanto quella fisica, se non di più.43 Dato che i carbonari erano atei, e per questo non avevano paura di Dio, andavano puniti duramente nella vita terrena, non avendo paura di quella post mortem: “ma se l’inferno non temono, né il Creator loro giudice”, constatava il Canosa, avevano invece dato prova di mostrare una poco eroica paura per “le pene di questa terra, e specialmente dell’ultimo supplizio”. Su questa umana angoscia si doveva insistere senza filantropici tentennamenti di sorta; repressione, e la più dura possibile, era pertanto la strategia indicata dal Principe napoletano per sconfiggere definitivamente la Carboneria.44

Contro l’ateismo e la miscredenza settaria non poteva comunque bastare solamente una forte repressione armata, anche la religione doveva fare la sua parte nel difendere la comunità con l’insegnamento dei buoni costumi e dell’ubbidienza alle leggi e ai propri superiori, come scriveva il principe su un altro giornale reazionario L’amico della gioventù. Il Canosa individuava nei gesuiti i più validi avversari dei settari in questa fondamentale battaglia a difesa del trono e dell’altare; ai gesuiti, ma più complessivamente a tutto il clero, il Canosa chiedeva pertanto di preservare nella collettività quell’ordinario “senso comune”, ora assalito da più parti e con motivazioni diverse, che faceva sì che il buon cristiano parteggiasse sempre per le tradizionali autorità costituite; con una opera di indottrinamento religioso sarebbe stato possibile isolare prontamente dalla società il virus settario, “sapendo infatti il cristiano che la ribellione al potere legittimo è il più grave di tutti i misfatti, […] e che pecca gravissimamente colui che potendolo non lo impedisce” tutti i fedeli si sarebbero dovuti così sentire obbligati ad impegnarsi in tale opera di prevenzione controrivoluzionaria, e pertanto denunciare “il cospiratore ai ministri del potere”.45

La continuità del fenomeno settario rimase uno dei cavalli di battaglia della polemica politica del Canosa; nello stesso articolo sopraccitato, accusava infatti di “imbecillità”, o peggio ancora di “malizia”, quei “politici” che non scorgevano “uniformità di disegno tra i massoni e gli altri settari di più recente data”. Non era vero, ammoniva il Canosa, che la Massoneria si limitava a richiedere “una moderata libertà, una semitolleranza, l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge”; queste erano solamente delle “fanfaluche” gettate in faccia a quei “gonzi” che ancora credevano nel moderatismo riformatore dei massoni anche dopo il travaglio della Rivoluzione francese; in realtà “l’ultimo segreto” di tale consorteria “non è che quello dei carbonari, della Giovane Italia, dei sansimoniani, i quali tutti non desiderano che l’anarchia (fino che torna loro conto) come la vita del bruto”.46 Seppure diviso in varie “criminose conventicole” esisteva un “partito” unico sovversivo, una sola “fazione” rivoluzionaria europea, che comprendeva “i falsi liberali, i massoni, i carbonari, gli illuminati, i cavalieri perfetti, la Giovane Italia, i riformatori cosmopoliti, e tutta la peste settaria vomitata dall’inferno sulla terra”, e che aveva un comune disegno cospiratorio consistente nell’opporsi “alle mire, alle disposizioni, agli ordini, al potere del Sovrano legittimo tanto spirituale che temporale”, in modo da procurare la prossima distruzione della società tradizionale.47

La controsetta dei calderari

Nei Piffari, dopo aver difeso i suoi sovrani dall’accusa di aver favorito la Carboneria, e aver smascherato invece i complici dei carbonari, il Canosa pensò opportuno scagionarsi dall’imputazione di esser stato l’ideatore, e poi il capo della setta legittimista dei cosiddetti “calderari del contropeso”. Alcune pagine dell’opuscolo sono infatti dedicate alla spiegazione della genesi e della evoluzione dei calderari per prenderne le distanze. Come già aveva fatto per i carbonari, anche per i calderari il Canosa ricordava come si formarono: esisteva a Napoli, “più che in altra parte d’Italia qualunque, un forte partito in favore di quell’Altare e di quel Trono, che aveva la Rivoluzione rovesciato”; partito che poteva contare su una quantità di adepti sicuramente maggiore rispetto a quello rivoluzionario, e che era forte soprattutto fra la “numerosa e potente classe dei calderari”. E furono proprio gli esponenti più in vista di tale corporazione a recarsi da Maria Carolina nel suo esilio siciliano per mettere a disposizione della causa dei Borboni il loro legittimismo e il loro odio controrivoluzionario. Immediatamente, rievocava il Canosa, “dai calderari il fuoco dell’insorgenza si comunicò all’arte (ancora molto numerosa e potente) della Conceria”, e così da una maestranza all’altra “il materiale per una controrivoluzione divenne immenso”, dal momento che “i più saggi tra i popolani conoscevano che il migliore loro stato consisteva nell’antico regime, e che le mutazioni non favorivano che la sola canaglia settaria”; pertanto, all’acceso spirito di corpo proprio di ogni corporazione, alla proverbiale saggezza popolare, ma non certo al Canosa, andava imputata la fondazione, e poi la vasta organizzazione della società segreta dei calderari.48

Neppure era vero, ammoniva il principe napoletano, ciò che aveva sostenuto il giornale londinese su una presunta iniziale origine comune fra carbonari e calderari. Ci fu solamente un breve momento di strategica alleanza contro il Murat: “i calderari che odiavano Gioacchino come francese, e non come re, accettarono l’invito e l’unione coi carbonari, trattando per combinazione lo stesso negozio, cioè lo sterminio di Gioacchino”.49 Ma eccettuata questa uguale intenzione, peraltro contingente, le diversità programmatiche fra le due sette erano tali da non permettere alcuna speculazione su un comune principio, “giacché sostenitori i primi della legittima monarchia, nemici i secondi di qualunque essa sia mista, costituzionale, assoluta”.50

Contestualizzate la nascita e le inequivocabili simpatie politiche dei calderari, successivamente il Canosa s’impegnava a prenderne le distanze, sia da un punto di vista organizzativo che ideologico. Innanzitutto precisava la sua contrarietà ad ogni tipo di setta, poiché riteneva le società segrete “nemiche della monarchia non solo, ma della tranquillità di ogni governo”, dal momento che spezzano quel sentimento di appartenenza ad una comune patria che deve coinvolgere tutti i cittadini, al di là delle singole convinzioni politiche. Pertanto l’autore si diceva convinto che “minor danno fa a uno Stato la guerra di quello che gliene arrechino le fazioni”. Inoltre, ogni società ha bisogno di essere regolata da “leggi fisse e stabili” che garantiscano tutti in egual modo, guai se i suoi governatori si abbandonassero al “capriccio” di favorire una parte rispetto ad un’altra; verrebbe infatti meno quella imparzialità e quel rispetto assoluto delle norme comunemente condivise a cui qualunque governo deve sottostare. E il Canosa, che governante era stato in qualità di ministro della polizia, rifiutava l’accusa di aver usato “mezzi assolutamente proscritti” per far rispettare l’ordine pubblico, di aver fatto “obbedire le leggi col disobbedire alle leggi” lui stesso, di aver insomma creato una propria fazione al servizio dello Stato.51

Particolarmente animata risultò lungo tutto il corso della sua esistenza la autodifesa dall’imputazione di aver fondato e diretto i calderari; imputazione che lo portò ad essere allontanato dal suo Stato “nella stessa maniera come si praticava un tempo colle dissolute ballerine”.52 In un altro scritto, a tali accuse il Canosa rispondeva addirittura negando l’esistenza stessa dei calderari, che “hanno esistiti soltanto nella mente dei miei avversari, e che tale fantasma inventarono solo per calunniarmi”. I calderari venivano così paragonati dal principe napoletano a “quei fuochi fatui che compariscono ne’ paesi meridionali nelle calde e serene nottate di luglio”, e che rimangono solo nell’immaginazione di chi crede di averli veduti; infatti non restava di loro una sola azione, un solo scritto, un solo uomo che avesse ammesso di averne fatto parte; in parole povere “il positivo nulla”. E se “non diedero segni di vita” la causa era una sola, e di facile spiegazione, perché “segni di vita non può dare chi non esiste”.53

Una volta smentita l’esistenza dei calderari, il Canosa ritornava sull’imputazione di averne fatto uso per contrastare i carbonari. Immaginando pure che i calderari fossero realmente esistiti come società segreta legittimista, il principe affermava che comunque mai li avrebbe usati e protetti, data la sua conclamata avversità verso ogni forma di setta, partito e fazione, ossia verso tutto ciò che in qualche modo poteva dividere la collettività. Opporre sette a sette, continuava il Canosa, non poteva che portare a risultati disastrosi, a quella hobbesiana “bellum omnium in omnes”, che invece di ottenere “il fine della tranquillità del regno” si sarebbe trasformata nel “mezzo distruttivo del fine stesso”, portando così alla “totale distruzione del Regno di Napoli”. L’adottare tale comportamento, concludeva il Canosa, non solo lo avrebbe fatto passare per “empio”, ma pure per “imbecille”, dato che avrebbe finito per far male alla sua patria con le sue stesse mani.54

Anche nella Epistola contro Colletta il Canosa si mostrava reticente ad ammettere l’effettiva esistenza dei calderari -“tanto poco ne conobbi e ne seppi che cade ancora in dubbio nell’animo mio se fosse mai in realtà esistita”- negando comunque che avessero mai potuto compiere quelle stragi di carbonari che la propaganda avversaria gli attribuiva.55 Ma soprattutto il Canosa s’impegnava a smontare nuovamente l’accusa di esser stato a capo di questa setta, ricordando come avesse giurato nelle mani del Sovrano “che non avrei mai fatto parte giammai di società segrete”; società peraltro, ci teneva a ribadire, “fulminate dal Sommo Pontefice”, e che quindi non potevano suscitare la sua benevolenza da cristiano osservante, qualunque colore avessero.56

Contro la “favola del Calderarismo” il Canosa tornava successivamente e con più decisione nell’opuscolo contro Niccolò Tommaseo, accusando Medici e Tommasi di averla inventata per screditarlo di fronte al sovrano, e quindi per farlo allontanare dal Regno, e aprire così le porte alla successiva rivoluzione carbonara del ’20. Infatti dove era il Canosa al governo, là non poteva esserci rivoluzioni di alcun tipo data la sua abilità a sventare complotti e maneggi della setta, così almeno pensava lo stesso principe napoletano:

[…] era dunque di una necessità di mezzo l’inventare contro di me quella ed altre favole, perché ove mi trovo io colle mani nella pasta non possono accadere rivoluzioni […]. E quando mai difatti le rivoluzioni ovvero le ribellioni (che hanno luogo per congiura) possono avere felice esito quando la congiura e i congiurati sono conosciuti da colui che siede al timone del vascello?

La “favola del Calderarismo” era risultata pertanto una meditata strategia carbonara per sostituire “al timone del vascello” il “pilota” coi “mozzi della nave”, fuor di metafora eliminare il Canosa a vantaggio appunto di Medici e Tommasi. Ma oltre a questa considerazione, che comunque poteva rimanere a livello di congettura personale, sebbene suffragata da una serie di riscontri sulle vicende appena prossime del Regno di Napoli, vi era poi, secondo il Canosa, una prova concreta e inoppugnabile dell’inesistenza dei calderari. Se realmente fossero questi esistiti, continuava infatti il Canosa, quale occasione migliore poteva capitare per tale setta di “distruggere tutti i frammassoni, i carbonari, i murattisti, quale più propizio incontro poteva presentarglisi per sfogare la premeditata vendetta e saziarsi di sangue inimico” che la restaurazione del ’22; e invece, anche in quei giorni, non accadde nulla, neanche una goccia di sangue carbonaro fu versata per mano calderara. Una sola era la conclusione da trarre da tutta questa vicenda, sentenziava il Canosa: “dunque il Calderarismo (e molto meno io il dirigere quella setta) fu puramente immaginario, e venne inventato per allontanarmi da Napoli perché volevano fare la ribellione”.57

Abituati ad usare il complotto quale loro unica arma politica -sosteneva il Canosa in un altro opuscolo, I piccoli piffari, una sorta di continuazione dell’opera principale- i settari si erano così inventati un falso complotto, quello calderaro, per disorientare l’opinione pubblica, e per nascondere quello vero, quello carbonaro ai danni dei legittimi sovrani; il paradossale risultato di questa meditata manovra era che i liberali s’impegnavano a denunciare di continuo presunte manovre segrete dei reazionari, quando chi agiva occultamente erano proprio loro stessi tramite le sette.58

Come si è visto, il Canosa fece propria, e divulgò a suo modo, la ben poco originale tesi del complotto settario,59 per fornire la ragione principale della continuità dello spirito rivoluzionario tout court contro ogni aspetto del vivere tradizionale; più volte ebbe infatti a ripetere che la Rivoluzione, non solo quella francese del secolo precedente, ma quella che in quegli si ripeteva nei vari moti un po’ ovunque in Europa, “ha come unica cagione la setta”,60 e contro la quale reputò necessaria la creazione di una contro-setta con il proposito di difendere il Trono e l’Altare mutuando dagli avversari la modalità dell’azione politica in clandestinità. La credenza in una dimensione occulta e sotterranea del procedere storico, portata avanti mediante le manovre di una vasta cospirazione, risultò una costante della sua interpretazione politica dei tempi correnti. Il complotto si dimostrava ai suoi occhi esteso non solo per la qualità e la quantità degli aderenti -nella sua prospettiva concettuale la dimensione della congiura risultava infatti composta da tanti fattori articolati, e in un certo senso a volte anche in opposizione fra loro- ma anche diffuso per il raggio d’azione dato che mirava a sovvertire sin dalle fondamenta quel secolare mondo di Antico Regime, che gli appariva invece quale garanzia secolare di un buon vivere collettivo.

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1Sul Canosa esiste una discreta produzione storiografica; per la sua vicenda esistenziale si rimanda al fondamentale studio biografico di Walter Maturi, Il principe di Canosa (Firenze: Le Monnier, 1944). Si veda inoltre sul suo pensiero politico Nicola Del Corno, “‘Un dispotismo vigoroso ed estremamente attivo’. La Restaurazione secondo il Principe di Canosa”, in Dinamiche del potere e dell’ideologia nell’Europa contemporanea, a cura di Marco Ferrari (Firenze: CET, 2004), 85-110.

2 Principe di Canosa, Ritratto (senza indicazioni editoriali), 10.

3Per una storia del microcosmo reazionario nell’Italia del XIX, e per una rassegna sulla relativa storiografia, si veda Nicola Del Corno, Italia reazionaria. Uomini e idee dell’antirisorgimento (Milano: Bruno Mondadori, 2017).

4Sulla dialettica fra Medici e Canosa si veda Antonino De Francesco, L’Italia di Bonaparte. Politica, statualità e nazione nella penisola fra due rivoluzioni 1796-1821 (Torino: UTET, 2011), 175-176.

5Sulla setta dei calderari si veda Oreste Dito, Massoneria, Carboneria ed altre società segrete (Torino/Roma: Roux-Viarengo, 1905), 210-230. Così l’autore: “era loro simbolo la caldaia sotto cui brucia e si consuma il carbone, a significare che in quel modo lì dovevano essere distrutti i carbonari. Ogni calderaro doveva contare nel suo attivo l’assassinio, per lo meno, di tre carbonari” (225). Sulla lotta fra le diverse sette nella Napoli della Restaurazione si veda inoltre, Emilio Gin, Sanfedisti, carbonari, magistrati del Re. Il Regno delle Due Sicilie tra Restaurazione e Rivoluzione (Napoli: Dante & Descartes, 2003), e dello stesso autore, L’aquila, il giglio e il compasso. Profili di lotta politica e associazionismo settario nelle Due Sicile (1806-1821) (Mercato S. Severino: Edizioni del Paguro, 2007).

6 Principe di Canosa, I piffari di montagna. Ossia cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i Carbonari. Epistola diretta all’estensore del Foglio Letterario di Londra, Dublino (indicazione falsa), 1820, dell’opuscolo uscirono poi altre cinque edizioni; in questo saggio si farà riferimento all’ultima edizione, ampliata rispetto alle precedenti, pubblicata nel 1832 con la falsa indicazione di Parigi.

7 Nino Cortese, “Un’autodifesa del Principe di Canosa”, in Scritti in memoria di Leopoldo Cassese (Napoli: Libreria Scientifica, 1971), vol. II, 26.

8 Gaetano Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento. La restaurazione a Napoli dal 1821 al 1830 (Bari: Laterza, 1970), 13-85.

9Sui diversi concetti di Restaurazione, adottati dalle istituzioni statali e discussi nel pubblico dibattito europeo, si rimanda a Jean-Claude Caron e Jean-Philippe Luis (dir.), Rien appris, rien oublié? Les Restaurations dans l’Europe postnapoléonienne (Rennes: Presse Universitaires de Rennes, 2015).

10 Principe di Canosa, Un dottore in filosofia e un uomo di Stato. Dialogo sulla politica amalgamatrice (senza indicazioni editoriali), 12.

11 Jean-Philippe Luis, “La construcción inacabada de una cultura política realista”, in La creación de las culturas políticas modernas 1808-1833, coordinamento di Miguel Ángel Cabrera e Juan Pro (Madrid/Zaragoza: Marcial Pons/Prensa de la Universidad de Zaragoza, 2014), 328-329. Per quello che riguarda il dibattito italiano si rimanda a Nicola Del Corno, “L’ossessione continua. Rivoluzione e Risorgimento fra sette e complotti”, in Risorgimento. Studi e riflessioni storiografiche, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Simone Visciola (Firenze: CET, 2001), 105-129.

12 Laurent Nagy, D’une Terreur à l’autre. Théories du complot et nostalgie de l’Empire 1815-1816 (Parigi: Vendémiarie, 2012), 140-146.

13Canosa, I piffari, 161.

14 William Jerdan, “The Carbonari”, The Literary Gazette and Journal of Belles Lettres, Arts, Sciences, núm. 139 (1819): 602-603. Su tale rivista si veda la voce che le ha dedicato Robert Duncan, “Literary Gazette, The”, in British Literary Magazines, vol. II: The Romantic Age 1789-1836, edizione di Albert Sullivan (Londra: Greenwood Press, 1983), 242-246. Sulle origini della carboneria in Italia, e sulla storiografia a proposito, si veda Gian Mario Cazzaniga, “Origini ed evoluzioni dei rituali carbonari italiani”, in Storia d’Italia, vol. XXII: La Massoneria, a cura di Gian Mario Cazzaniga (Torino: Einaudi, 2006), 559-578. Inoltre, va tenuto conto, come ha sottolineato Marco Novarino, che occorre considerare nel panorama italiano le Carbonerie (al plurale) date le differenze fra quella napoletana e quella “trasformata” da Filippo Buonarroti nell’Italia settentrionale: “Le società segrete in Piemonte”, in Il Piemonte nel periodo preunitario, a cura di Frédéric Ieva (Roma: Viella, 2015), 116-118.

15 Anonimo, “Cinquième lettre. Sur la situation morale et politique de l’Italie”, Bibliothèque Historique, ou Recueil de matériaux pour servir a l’histoire du temps, vol. VIII, num. 6 (1819): 325-334 (333 il brano citato).

16 Grégoire Orloff, Mémoires historique, politiques et littéraires sur le Royaume de Naples (Parigi: Treuttel et Würz, 1819), vol. II, 285-286.

17Maturi, Il principe, 142.

18Canosa, I piffari, 17-19.

19Canosa, I piffari, 38.

20Canosa, I piffari, 21.

21Canosa, I piffari, 150.

22La prima traduzione dei Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme fu stampata a Venezia in quattro volumi fra il 1799 e il 1800. A Napoli, nel 1802, fu data alle stampe un’altra edizione italiana sotto personale impulso della sovrana Maria Carolina, come riferisce appunto il Canosa, I Piffari, 47-48. Sulla ricezione degli scritti di Barruel in Italia si veda Elisa D’Annibale, “Memorie di un gesuita: Augustin Barruel e la teoria del complotto in Italia”, in Illuminatismo tra Germania e Italia nel tardo Settecento, a cura di Gianluca Paolucci (Roma: Istituto Italiano di Studi Germanici, 2019), 137-152.

23Canosa, I piffari, 54-57.

24Canosa, I piffari, 47.

25“Vedete bene, dunque, che non vi è luogo affatto a sorpresa pel segreto, col quale la setta de’ carbonari pervenne ad effettuare, e consumare la congiura della ribellione […] giacché segreto non ve ne fu per certo. Quello che sorprende piuttosto, si è, che chiuso l’orecchio del Diumvirato napoletano [ossia Medici e Tommasi] a tutti gli officiali avvisi a tempo ricevuti, lungi di frapporre un argine al minaccioso torrente, si continuò a facilitare freddamente il completo trionfo della setta, collo spargere fino all’ultimo momento una maligna confidenza sopra i più ragguardevoli personaggi, fedeli e cari al Re, e col preferire fin pure al comando delle reali truppe destinate a combattere i ribelli una creatura della rivoluzione per mille ragioni sospetta, piuttosto ché Duci di piena fede, mediante i quali l’Idra della rivoluzione sarebbe stata sicuramente atterrata, e distrutta nel nascere”, così il Principe di Canosa, In confutazione degli errori storici e politici da Luigi Angeloni esposti contro S.M. l’Arciduchessa Maria Carolina d’Austria defunta regina di Napoli (Marsiglia [ma l’indicazione è falsa]: nessuna indicazione editoriale, 1831), 116-117.

26“Noi prima prevedemmo, indi tutti videro nella celebre ribellione di Napoli del 1820 la bravura della carbonara canaglia! Erano cinque anni che essa la preparava; un ministero liberale diede a’ ribelli tutte le facilitazioni, ancora dirette, per eseguirla senza la menoma reazione; ebbero nove lune di tempo per armarsi, fortificarsi, prepararsi alla pugna, entusiasmare la plebe! I fedeli della Dinastia legittima, caduti in una completa paralisi per la guerra quinquennale loro fatta da Medici e Tommasi non poterono operare la menoma reazione”, così sempre il Principe di Canosa, “Lettera ad un Amico mio”, La Voce della Verità, vol. III, num. 315 (1833): 78.

27Canosa, I piffari, 101-104.

28Cortese, “Un’autodifesa”, 23.

29Canosa, I piffari, 165.

30Su questa rivoluzione si veda principalmente Aurelio Lepre, La rivoluzione napoletana del 1820-21 (Roma: Editori Riuniti, 1967); Ruggero Moscati, “Su la rivoluzione napoletana del 1820-21”, in Scritti in memoria di Leopoldo Cassese (Napoli: Libreria Scientifica, 1971), vol. II, 30-43; Maria Sofia Corciulo, Una rivoluzione per la costituzione. Gli albori del Risorgimento meridionale (1820-21) (Roma: La Sapienza, 2010); inoltre per una ricognizione anche dal punto di vista storiografico il recente Carmine Pinto, “1820-1821. Revolución y restauración en Nápoles. Una interpretación histórica”, Berceo, num. 179 (2020): 51-66.

31 Principe di Canosa, “Lettera ad un signor Duca gentilissimo”, La Voce della Verità, vol. i, num. 112 (1832), nei primi due volumi della rivista non sono riportati i numeri di pagina.

32Sulla continuità fra i moti spagnoli e italiani del biennio si veda il classico studio di Giorgio Spini, Mito e realtà della Spagna nelle rivoluzioni italiane del 1820-21 (Roma: Perrella, 1950).

33Canosa, In confutazione, 105-107.

34Canosa, In confutazione, 107-108.

35Canosa, In confutazione, 110.

36Canosa, In confutazione, 124-125.

37Sulla diffusione in Italia delle sette, e sui loro reciproci rapporti anche a livello internazionale, si veda principalmente Renato Soriga, Le società segrete, l’emigrazione politica e i primi moti per l’indipendenza (Modena: Società Tipografica, Modenese, 1942); Carlo Francovich, Albori socialisti nel Risorgimento. Contributo allo studio delle società segrete (1776-1835) (Firenze: Le Monnier, 1962).

38 Principe di Canosa, Epistola, ovvero riflessioni critiche sulla moderna “Storia del Reame di Napoli” del generale Pietro Colletta (Capolago [ma l’indicazione è falsa]: nessuna indicazione editoriale, 1834), 199.

39 Canosa, Epistola, 51-52, n. 13 (in questo opuscolo la numerazione delle pagine delle note, poste in fondo allo scritto, riparte dalla prima pagina). L’immagine della massoneria burattinaia e dei carbonari burattini ritorna in due articoli comparsi sulla Voce della Verità; così infatti nell’articolo Principe di Canosa, “Lettera ad un amico pregiatissimo sui numeri 180 del Corriere e 181-182 del Costituzionale relativi al Re di Sardegna”, La Voce della Verità, vol. III, supplemento al num. 306 (1833): 35, “se ci è diversità tra il Carbonaro e il Framassone non sarebbe che quella che passa tra le marionette e il giocoliere che le muove”; e nell’articolo “Lettera ad un sig. Cavaliere Amico mio pregiatissimo”, La Voce della Verità, vol. III, supplemento al num. 320 (1833): 110, “i carbonari infatti lavorano per la Massoneria, e [sono] diretti dai Massoni i quali fanno giocarli (senza che il volgo se ne accorga) come il ciarlatano le sue marionette”.

40Canosa, Abbozzo riservato di un piano politico-morale, onde neutralizzare il sistema massonico, paralizzarne i progressi e farlo divenire utile ai Sovrani, alla religione cattolica e agli Stati, senza data; ora pubblicato da Francesco Leoni, “Quattro inediti del Principe di Canosa”, Archivio Storico per le Provincie Napoletane, vol. XCI (1974): 308-318.

41“I carbonari del nostro regno non sono mica da paragonarsi con quelli del Nord sia per la natura della loro società, sia per i mezzi a cui si appigliano, sia per il carattere di prontezza necessaria a produrre uno sviluppo qualunque”; Giuseppe Gabrieli, “Dall’Archivio Canosa. Massoneria e Carboneria”, Rivista Massonica, vol. XIII, num. 9 (1978): 582-586.

42Traggo la citazione da Walter Maturi, Il principe, 198. Sui rapporti fra massoni e carbonari nel meridione d’Italia si veda, Giuseppe Gabrieli, Massoneria e Carboneria nel Regno di Napoli (Roma: Atanòr, 1981). Si veda inoltre, per una messa a punto storiografica, Fulvio Conti, “Massoneria e società segrete nell’Italia della Restaurazione: le stagioni del dibattito storiografico”, Clio, vol. XXXIV, num. 3 (1998): 479-498.

43 Principe di Canosa, I miracoli della paura (Modena: Tip. Camerale, 1831), 20-21.

44 Principe di Canosa, Sulla proporzione delle pene secondo la diversità dei tempi (Modena: Tip. Camerale, 1831), 45-46.

45 Principe di Canosa, “Introduzione a Discorso sull’albero della libertà francese”, L’Amico della Gioventù, vol. IV, num. 23 (1833): 131-132.

46Canosa, “Introduzione”, 136. In una relazione sui carbonari napoletani, indirizzata al suo sovrano e scritta quando era ministro, il Canosa affermava che la Carboneria era una emanazione della Massoneria. Fra le cose interessanti dello scritto risulta senza dubbio un decalogo che il principe suggeriva per fronteggiare le sette nel Regno delle Due Sicilie; decalogo improntato ad una almeno apparente moderazione —il primo articolo infatti così recita: “niuna manifesta persecuzione”— e che puntava piuttosto a recuperare i settari pentiti —gli articoli 5 e 6 prevedevano “carezze” a quei carbonari “docili e ubbidienti alla paterna voce del Sovrano”, e ancor a di più a chi si “allontana” definitivamente dalla Setta— e a far combattere fra di loro le diverse sette secondo una concreta applicazione del divide et impera —articolo 9: “eccitare e promuovere la diffidenza fra i settari”—. Un ruolo fondamentale era affidato all’opera di predicazione della Chiesa che doveva far comprendere come fosse peccato far parte di società segrete, come recitava l’articolo 8. Tale relazione è stata pubblicata da Alfredo Zazo, “Il principe di Canosa e le sette nel Regno di Napoli (1815-1818)”, Ricerche e Studi Storici, vol. II (1939): 228-233.

47 Principe di Canosa, “Polemica contro i giornali rivoluzionari”, L’Amico della Gioventù, vol. II, num. 12 (1832): 180.

48Canosa, I piffari, 57-60.

49Canosa, I piffari, 56.

50Canosa, I piffari, 62.

51Canosa, I piffari, 62-63.

52Canosa, In confutazione, 134-135.

53Canosa, In confutazione, 125-126.

54Canosa, In confutazione, 126-128.

55Canosa, Epistola, 124-125.

56Canosa, Epistola, 126.

57 Principe di Canosa, La gazzetta “Voce della verità” condannata a morte ignominiosa senza appello con sentenza proferita a Parigi nell’aprile 1835 da ser cotale Niccolò Tommaseo e compagni per strage commessa dell’Antologia e per attentati contro la liberalesca sovrana canaglia (Filadelfia [ma l’indicazione è falsa]: nessuna indicazione editoriale, 1835), 57-58.

58 Principe di Canosa, I piccoli piffari. Ossia risposta che alla sovrana liberalesca itala canaglia dà l’antico autore dei “Piffari di montagna” in difesa dell’antico suo cliente (Parigi [ma l’indicazione è falsa]: nessuna indicazione editoriale, 1832), 53-54.

59Si veda a proposito Amos Hofman, “The origins of the theory of the Philosophe conspiracy”, French History, vol. II, num. 2 (1988): 152-172, n. 2; Zeffiro Ciuffoletti, Il complotto massonico e la rivoluzione francese (Firenze: La Medicea, 1989), e Patrick Harismenday, “Il complotto: fobia e mania della Francia moderna”. Contemporanea, vol. II, num. 4 (1999): 631-649, n. 4.

60Canosa, I piccoli piffari, 28.

Received: June 24, 2020; Accepted: March 18, 2021

Nicola Del Corno: è professore associato di “Storia delle dottrine politiche” presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano. Si è occupato principalmente del movimento reazionario italiano nel XIX secolo, del Carlismo spagnolo, di Carlo Rosselli e del socialismo italiano nella prima metà del XX secolo. Fra i suoi libri più recenti: Giovani, socialisti, democratici. La breve esperienza di “Libertà” (1924-1925), Milano: Biblion, 2016; Italia reazionaria. Uomini e idee dell’antirisorgimento , Milano: Bruno Mondadori, 2017; Spagna controrivoluzionaria. Il “Manifiesto de los Persas” (1814), Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2019.

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