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versión On-line ISSN 2594-0619versión impresa ISSN 1665-1200

Tóp. Sem  no.28 Puebla jul./dic. 2012

 

The Shining di Stanley Kubrick: un sistema di colori e passioni

 

Omar Calabrese

 

Profesor de la Universidad de Siena, Via Banchi di Sotto 55, 53100, Siena, Italia.

 

1. Il film

Sono stati versati fiumi di parole per analizzare e interpretare l’opera di Stanley Kubrick, e in particolare The Shining (Regno Unito, USA, 1980). C’è una ragione profonda per tutto questo. Il regista americano è stato giustamente considerato come un autore capace di iscrivere nei suoi film la teoria che li sorregge o li fonda. E lo ha fatto utilizzando i mezzi espressivi specifici del cinema e contraddicendo l’antico stereotipo critico che vuole che solo la parola abbia una simile virtù, data la sua capacità di formulare concetti astratti, laddove le altre arti rimangono "concrete" quasi per definizione. Si tratta di un’impresa di grande spessore intellettuale, che ci consente di annoverare Kubrick nell’elenco immaginario di coloro che hanno saputo trattare l’arte come "oggetto teorico".1 Numerosi autori si sono soffermati su questo aspetto, presente nella gran parte delle opere del Maestro. Ad esempio, è stato notato che nello stesso The Shining è molto insistita la figura del labirinto; che in Barry Lindon rinveniamo un sistema di citazioni pittoriche che fanno sistema, e non soltanto manifestazione erudita; che in Clockwork Orange esiste una vera e propria "teoria della visione", esibita a partire dalla scena dell’applicazione ad Alex della "cura Ludovico"; che in 2001: A Space Odissey ci troviamo dinanzi a un esercizio di moltiplicazione dello spazio analogo a ciò che avviene in pittura col procedimento di costruire il "quadro nel quadro"; e potremmo proseguire ulteriormente.2

In questo breve saggio, tenterò di mostrare come —in The Shining— si possa intravedere la creazione di un complesso sistema cromatico, destinato a favorire la manifestazione di un sistema passionale altrettanto complesso. In altre parole: il film di cui stiamo parlando dichiara la sua appartenenza al genere horror (ed è stato fra l’altro considerato dalla critica come il secondo miglior esemplare di tutti i tempi in questo settore), tanto più che si tratta della riduzione cinematografica dell’omonimo libro di Stephen Edwin King del 1977, cui arrise un enorme successo con quattro milioni di copie vendute negli Stati Uniti. Ma Kubrick ha rielaborato il romanzo in molti dettagli figurativi, e non si è abbandonato, se non in minima parte, alla rappresentazione diretta di scene dell’orrore. Ha scelto, invece, di costruire un impianto visivo passionale più astratto, quel che in semiotica potremmo chiamare figurale, per giustapporlo al figurativo. Ovvero: laddove i temi e le figure esprimono un contenuto "sentimentale" diretto (e stereotipo), la loro organizzazione soggiacente (la "figuralità") è capace di comunicare sensorialmente il contenuto "passionale" indiretto.3

Cominciamo con alcune osservazioni empiriche. Le prime scene della pellicola (introdotte da titoli: "The Interview", e "Closing Day") illustrano l’assunzione di Jack Torrance (scrittore in crisi di creatività) come guardiano invernale dell’Overlook Hotel in Oregon, che chiude per la brutta stagione e deve restare per cinque mesi nel più completo isolamento, il trasferimento con la famiglia (la moglie Wendy e il figlio Danny), e la partenza del personale e degli ultimi ospiti. Le sequenze di questa prima parte sono dotate di un cromatismo che potremmo dire "naturalistico". Il viaggio in auto trascorre in mezzo a paesaggi dalla dominante verde, le immagini degli uffici e dell’hotel ancora popolato hanno una tavolozza orientata al beige e ad altre mezze tinte, e così gli abiti dei personaggi (protagonisti inclusi, che indossano vestiti grigi, blu, marroni, bianchi). Alla fine del secondo segmento, però, irrompe il colore rosso. I tre membri della famiglia Torrance entrano nell’albergo dove campeggia un ascensore rosso (ripreso appositamente dal Bitmore Hotel di Frank Lloyd Wright del 1928 in Arizona). Le colonne e numerose pareti sono tendenti al vermiglio. Le poltrone hanno la medesima tonalità. Subito dopo, Danny inizia a giocare a freccette, e queste hanno la coda di un intenso colore rosso. La sala dei giochi contiene dei biliardi, e anche questi hanno l’insolito panno rosso al posto del più classico verde. È qui che appaiono per la prima volta le due gemelle Grady, che, come scopriremo poi, sono state massacrate dieci anni prima dal predecessore di Torrance, il loro padre Delbert.

La scena successiva (che inizia col titolo "A Month Later") rende sempre più insistito il tema cromatico del rosso. Danny percorre i corridoi labirintici dell’albergo col suo triciclo, e alcuni pavimenti sono verniciati con questa tinta; altrove, si oltrepassa no tappeti con figure geometriche su fondo carminio; il bambino indossa un pullover rosso. Quella ancora seguente ("Tuesday") presenta una moquette nei corridoi con le medesime figure dei tappeti, e il ragazzo ha indosso un giubbetto ancora più rosso. Per la prima volta avverte lo "shining" del delitto che ha riguardato le gemelle, che gli appaiono riversate a terra, in una pozza di sangue, che ha imbrattato anche le pareti. L’immagine si ripeterà nella scena ancora successiva ("Saturday"). Dopo una breve parentesi di quiete nella narrazione ("Monday"), nella quale si torna a un sistema cromatico con dominanti azzurre, bianche e a tinte scure, la settima parte ("Wednesday") vede l’esplosione del rosso in tutta la sua violenza. Sia Danny che Jack sono vestiti di rosso. Danny ha visioni di fiumi di sangue sempre più accese, che rimano col colore dell’ascensore del corridoio in cui avvengono. Jack si reca nella Gold Room in cui incontra i personaggi di un tempo precedente: le poltrone sono rosse, rosse sono le cartelline dei menù dei camerieri, rossa la divisa del barista. E rosso è il bagno nel quale si incontrano Jack e il suo predecessore Delbert Grady (anche i bagni sono ripresi da Frank Lloyd Wright, e precisamente dall’Ahwaknee Hotel in California). Nella stessa scena ha un ruolo importante persino il gatto delle nevi sabotato da Jack e che Wendy avrebbe voluto usare per la fuga: è rotto, ma soprattutto è rosso fiammante. L’ultima parte ("4 pm") conclude il film. Inizialmente, il rosso domina ancora. Danny scrive la parola "redrum", leggibile anche a rovescio come "murder", sulla porta della stanza della madre, e lo fa utilizzando il rossetto di Wendy, ambiguamente combinato col l’idea che si tratti ancora una volta di sangue, dato che passa il dito sulla lama del coltello da lei usato per difendersi. Jack uccide poi con l’ascia il cuoco che ha tentato di raggiungere l’hotel per salvare madre e figlio e lo abbandona ferito a morte. Wendy ha la visione dell’ascensore e del corridoio riempito di sangue e già appartenente a Danny, nonché di Delbert Grady che di sangue è semi-coperto.

Tuttavia, il finale pare contrapporre in maniera definitiva le premesse visionarie o folli avvenute negli interni alla conclusione in esterno, nel labirinto innevato, dove Danny si salva dall’inseguimento del padre, e quest’ultimo si perde, finendo congelato. Il bianco è, questa volta, dominante assoluto. Seguendo questa chiave, possiamo allora formulare l’ipotesi seguente. Il film si articola, lungo tutto il suo percorso, nella contrapposizione fra il rosso e due altri composti cromatici: il bianco/azzurro da una parte e il policromo dall’altra. Rileggiamo le sequenze a partire da questo presupposto. Quella iniziale è completamente policroma, con una tendenza orientata alle mezze tinte e all’opacità. Nella seconda, comincia ad apparire il rosso come anomalia contrastiva. A cominciare dalla terza e fino alla conclusione il rosso è sempre più in conflitto con la dominante del bianco (la neve che isola l’albergo, la neutralità delle cucine) e dell’azzurro, che non corrisponde a oggetti precisi, ma alla luce che neutralizza in una specie di alone generale tutti i colori ambientali.

Abbiamo rinvenuto, in questo modo, un formante plastico fondamentale, e possiamo tentare di analizzarlo secondo categorie del contenuto che vi siano combinate. È evidente che la disseminazione del rosso è collegata al tema della violenza, della pazzia, dell’orrore. Quanto al bianco/azzurro, possiamo associarlo con facilità al tema della solitudine e dell’impotenza. E la policromia? Ebbene, i due formanti figurativi principali a questo punto escludono (ma è meglio dire: si giustappongono) al senso di realtà, più forte nelle prime scene, e sempre più debole verso il finale. A volte, la realtà quotidiana entra in scena soltanto se mediata e resa opaca dai mezzi di comunicazione: un telegiornale visto dal cuoco Halloran che parla dell’anomala nevicata sull’Oregon e lo convince a partire per raggiungere l’Overlook Hotel, le fotografie di tempi gloriosi dell’albergo negli anni Venti (tutte in bianco e nero). Tutto materiale, in verità, ambiguo, soprattutto se lo rileggiamo a partire dalle foto. La pellicola si conclude, infatti, con il fermo-immagine su una istantanea della festa del 4 luglio, nella quale si vede un personaggio in primo piano che altri non è se non Jack Torrance sorridente e felice. Il passato e il presente si sommano e si annullano, non sono "reali". Reali sono, piuttosto, le passioni della folle violenza e della solitudine.

Come si vede, The Shining articola un complesso sistema cromatico che regge a livello espressivo l’altrettanto complesso sistema dei contenuti, secondo architetture coerenti su entrambi i piani. Tentiamo, allora, di ricavare da questa analisi qualche principio più generale, estendibile anche ad altre casistiche.

 

2. Il testo come "sistema locale"

La prima considerazione da svolgere è che nel nostro film abbiamo osservato la costruzione di un sistema dei colori, portatore di un sistema semantico. Non si tratta, però, di un sistema universale. Quella organizzazione cromatica ha valore in The Shining, ma non necessariamente altrove. Con questa banale osservazione, siamo giunti subito al cuore di una questione fondamentale, ovvero quella che concerne la natura generale o singolare di un testo. In quanto sostanza o processo, un testo è per l’appunto una manifestazione individuale. E questo vale anche per testi appartenenti a un sistema altamente organizzato come la lingua naturale, all’interno della quale riconosciamo gli usi particolari, ad esempio lo stile.4

Come fare per rendere conto, in semiotica, di una simile evidenza? L’antica abitudine di classificare i fenomeni semiotici per sostanze (il "linguaggio della pittura", quello del cinema, quello della musica, e così via) eludeva questo tema fondamentale, perdendosi spesso in inutili ricerche sulla natura e l’autonomia dei "segni specifici", nonché sui loro "elementi minimi". Si smarriva, in questo modo, il senso effettivo di un testo, che troppo spesso veniva trattato solo come illustrazione ed esempio della teoria, senza cercare di descrivere e interpretare i suoi effetti di senso. Greimas è stato forse il solo a precisare che una cosa è il piano del contenuto, che è sempre lo stesso anche se segmentato in maniere diverse secondo le diverse culture (ma questo vale anche per le lingue naturali, ovviamente), e altra cosa è il contenuto manifestato sul piano dell’espressione.5 Non si tratta, insomma, di continuare con l’esercizio di classificazione di una "tipologia dei segni", quanto piuttosto quello di proporre di un’analisi degli esiti sul piano dell’espressione delle grandi procedure di costruzione del significato. Il principio teorico generale che consegue a una simile visione risale, fra gli altri, alle osservazioni di Émile Benveniste a proposito di un possibile "linguaggio della pittura".6 Benveniste affermava che non si può parlare di "sistema linguistico" se non si danno due condizioni preliminari. La prima è l’esistenza di un asse paradigmatico: si deve ritrovare nel presunto "sistema" una lista chiusa di elementi minimi e coerenti fra loro. La seconda è l’esistenza di un asse sintagmatico: deve essere conoscibile l’insieme di regole che permettono la combinatoria fra le unità dell’asse paradigmatico. Nel caso della pittura, queste condizioni sono assenti, sia perché le opere sono così eterogenee fra loro che non è possibile derivarne una lista chiusa di elementi minimi, sia perché nei singoli processi (i quadri) solo pochi elementi dell’eventuale lista sarebbero riscontrabili, sia perché le regole di combinazione non sono limitate, ma illimitate. Tuttavia, se consideriamo l’opera singola, il discorso cambia radicalmente. In questo caso, infatti, il quadro —proprio perché presenta una chiusura, la cornice— è al tempo stesso un processo e un sistema. È un sistema perché sono esibiti al suo interno tutti gli elementi (anche quelli richiamati per assenza) che lo costituiscono: colori, materie, geometrie, eccetera. E sono parimenti esibite le regole di combinazione (ad esempio, le mescolanze lecite di colori e quelle non previste). In questo modo, Benveniste garantiva l’evidenza che in un’opera pittorica si produce semiosi, ma anche quella della singolarità della medesima opera. Va da sé che le note del linguista francese possono essere allargate a qualunque oggetto visivo (fotografia, cinema, scultura, architettura, eccetera), ma anche a oggetti appartenenti ad altre sostanze dell’espressione, come la musica, o a fenomeni di carattere sincretico (che costituiscono, oltretutto, la stragrande maggioranza dei casi).

 

3. I modi di esistenza semiotica

Si può partire da qui per tentare di avanzare, adesso, nella prospettiva di una "semiotica dei processi". In che cosa dovrebbe consistere? In una prospettiva di analisi che affianchi alla semiotica generale anche una "semiotica locale", cioè l’indagine sul senso delle opere individuali prese in esame. La descrizione, l’interpretazione e la spiegazione di un fenomeno singolo, d’altra parte, in qualunque scienza servono non solo a una definizione del fenomeno stesso, e non solo a una conferma della teoria, ma anche al continuo avanzamento e alla costante modifica della teoria stessa. Anche in semiotica, pertanto, si dovrebbe far crescere l’analisi dei testi non già come applicazione, quanto piuttosto come banco di prova. Le scienze moderne stanno ormai abbracciando quest’indirizzo. Le teorie epistemologiche della complessità, ad esempio, tentano di proporre una visione "qualitativa" dell’analisi.7 Quando incontriamo fenomeni complessi, infatti, non è praticabile il riduzionismo quantitativo delle scienze classiche. L’alto numero di elementi in gioco, ad esempio nelle scienze naturali, è portatore di complessità, e le regole generali non bastano più a descrivere/interpretare/spiegare il fenomeno individuale. Occorre introdurre la nozione di "sistema locale", cioè l’idea che il fenomeno individuale sia un sistema esso stesso.

Nell’ambito dei fenomeni umanistici, e di quelli a carattere individualizzante come le opere d’arte in particolare, la complessità risulta addirittura più alta che nei fenomeni naturali. È logico, dunque, che se ne tenga conto. Tanto più quando la caratterizzazione singolare —la differenza più che l’identità— diventa quasi un obbligo, o è comunque costitutiva delle intenzioni di chi produce un artefatto.

Che cosa può voler dire questo per la semiotica? E da che punto partire per costruire una buona prospettiva di analisi? Probabilmente, è giusto muovere, come hanno fatto Greimas e la sua scuola fin dagli inizi degli anni Ottanta, con un riesame dei concetti hjelmsleviani di esistenza semiotica. Hjelmslev8 sostiene che si danno due modi principali, definibili secondo il rapporto fra le grandezze del piano dell’espressione e quelle del piano del contenuto. Il primo si dice modo simbolico, e prevede conformità e isomorfismo fra i due. Vi sono unità indivisibili sul piano dell’espressione che corrispondono ad altrettante unità sul piano del contenuto (ad esempio, il sistema del semaforo: tre luci colorate, verde, giallo e rosso, e tre significati, "passare", "attenzione", "star fermi"). Il secondo si dice modo semiotico, e prevede non conformità e non isomorfismo. Infatti, le unità esistenti sul piano dell’espressione non sono automaticamente associate a quelle sul piano del contenuto, e inoltre le loro grandezze differiscono (ad esempio, una lingua naturale: /cane/ è composto di quattro unità, ma "cane" di tre; la scomposizione in unità fonetiche, peraltro, non è isomorfa a quella delle unità semiche).

 

4. Il semi-simbolico

Si può immaginare l’esistenza di un terzo "modo"? Greimas lo prevede, e lo chiama modo semi-simbolico. In questo caso, i due piani non prevedono l’esistenza di unità, ma solo di categorie, ciascuna delle quali passibile di altre possibili (ma non necessarie) scomposizioni in unità. Mentre le eventuali unità non sono ovviamente isomorfe, le categorie sono invece conformi: a x categorie dell’espressione corrispondono a categorie del contenuto.

L’utilità di questo concetto è evidente. In primo luogo, lascia da parte l’inutile ricerca delle unità minime di ogni eventuale "sistema specifico" per sostanze,9 consentendo un’analisi anche laddove fondamenti minimi non siano conosciuti. In secondo luogo, salvaguarda la possibilità stessa dell’analisi semiotica strutturale, partendo dall’evidenza che in una manifestazione qualunque siamo sempre in grado di rinvenire certi effetti di senso. In terzo luogo, garantisce la possibilità di ritenere "sistema" un testo singolo, soprattutto perché attribuisce a questo "sistema" una vocazione specifica, quella di organizzare delle macro —piuttosto che delle micro— strutture. Il testo individuale, così, risulta valorizzato come artificio semiotico orientato a stabilire architetture interne sue proprie, caratterizzanti il fenomeno individuale come un tutto. Va da sé che i principali obiettivi verso cui la teoria del modo semi-simbolico si è diretta sono i testi visivi, e inoltre tutti i testi ad alta complessità e singolarità, come quelli poetici e quelli mitici, che sono altrettanto identificabili come proiettati alla costruzione di una particolare figuratività.

L’insieme di questi testi (con ovvia predominanza per quelli costituiti da immagini) è stato denominato semiotica plastica. All’interno della quale sono operabili ulteriori distinzioni, come una semiotica planare o una semiotica tridimensionale, a seconda delle dimensioni del supporto espressivo impiegato. La semiotica plastica è organizzata in almeno due livelli, quello plastico propriamente detto, che appartiene al piano dell’espressione, e quello figurativo, che è invece già piano del contenuto. Ebbene, il punto di partenza è precisamente quello di rinvenire in una manifestazione individuale i formanti del livello plastico, che appariranno nel testo preso in esame come categorie plastiche.

 

5. Le categorie plastiche

La Scuola di Parigi ha individuato tre grandi tipi di categorie che producono i formanti plastici di ogni testo individuale:

a. categorie cromatiche (costituite dai contrasti di colore resi pertinenti dal testo);

b. categorie topologiche (costituite dai contrasti fra direzioni topologiche);

c. categorie eidetiche (costituite dai contrasti fra figure geometriche astratte).

Come si vede, il principio di base è il rinvenimento nel testo di particolari contrasti plastici (astratti, non ancora dipendenti dal contenuto). Una volta identificati i contrasti e le categorie espressive di riferimento, si passa alla ricerca delle categorie di contenuto che si suppongono loro correlate per la produzione dell’effetto di senso.

Questo sistema, ovviamente, funziona se si osservano determinate condizioni di analisi, e se si presuppone un principio fondamentale. Cominciamo con le condizioni di analisi. Quando si crede di rinvenire un contrasto plastico, e di qui si risale alle categorie relative, occorre sempre definire il principio di perti nenza. È necessario, insomma, che si individui quel contrasto come co-essenziale all’architettura del testo. Infatti, è del tutto possibile che in un testo sussistano contrasti plastici marginali o casuali, e inessenziali alla sua costituzione. In secondo luogo, è d’obbligo mettere in chiaro il principio di rilevanza, che fra l’altro spesso coincide con una vera e propria "messa in rilievo" di un certo contrasto plastico.

Il principio di rilevanza è importante, giacché in uno stesso testo possono convivere più contrasti plastici, magari legati fra loro da relazioni di dipendenza, e di cui occorre trovare una gerarchia di funzionamento. Si noti, comunque, che il procedimento per contrasti è motivato anche da leggi gestaltiche: il contrasto figura/sfondo, quello fra contorni/amalgama, quello fra colori, quello fra luoghi (alto/basso, destra/sinistra, centro/periferia) sono sempre stati definiti come i fondamentali della percezione visiva. Il principio cui si accennava è invece più generale. Il fatto che si possa stabilire un’organizzazione formale del testo, che a sua volta sarà portatrice di un’organizzazione del contenuto a partire da uno o un insieme di contrasti plastici, implica che si creda nel fatto che il testo sia costituito da un sistema di coerenze interne. In questa prospettiva, allora, sembra legittimo affiancare al principio della coerenza semantica (chiamato isotopia), quello di una parallela coerenza plastica, che battezzeremo isografia.10 L’isotopia è l’integrazione delle diverse componenti semantiche di un insieme complesso (come minimo la proposizione). L’isografia sarà, analogamente, l’integrazione delle diverse componenti espressive di un insieme complesso. La teoria dell’isotopia prevede che sia possibile che una proposizione contenga più isotopie contemporaneamente (che sia pluri-isotopica, o che contenga più allotopie rispetto a una fondamentale). Alla stessa maniera, è possibile che vi siano isografie concomitanti, o pluri-isografie, o allografie.11

Le isografie possono essere catalogate a partire dal tipo ca tegoriale. Propongo, pertanto, di chiamarle isocromie, isometrie e isotopie espressive (per distinguerle da quelle semantiche, ma un’altra denominazione sarebbe benvenuta), a seconda che riguardino le coerenze dei colori, degli elementi geometrici o delle posizioni spaziali. A loro volta, le coerenze stesse possono essere distinte per il loro tratto dominante. Le isocromie, ad esempio, potranno fondare la loro omogeneità sulla gamma cromatica (la scelta del sistema di tavolozza), oppure sulla tonalità (chiaro, scuro), o sulla trasparenza (diafano, opaco), o sull’intensità (lieve, deciso), e altri caratteri che risultino pertinenti.

 

6. Ancora su The Shining

Torniamo adesso alla nostra analisi di Kubrick. Ci siamo mossi, all’inizio, in maniera estremamente empirica, osservando il film a partire dal piano dell’espressione. Subito, è saltata agli occhi la rilevanza (quantitativa) della distribuzione dei dettagli di colore rosso nel film. Siamo poi passati a valutare la sua pertinenza, e abbiamo visto che questa era evidente, perché le scene a dominante rossa si contrapponevano ritmicamente a quelle con dominante bianco/azzurra e a quelle con varietà policroma, secondo uno schema piuttosto rigido:

Nella parte superiore, a livello complesso, la combinazione di "rosso" e "bianco/azzurro" dava luogo a un sistema conflittuale, e nella parte bassa l’insieme di "non bianco/azzurro" e "non rosso" a un sistema neutro o opaco (la policromia). Quest’ultima annotazione, peraltro, consente anche di sovrapporre al primo anche un secondo quadrato, perché il contrasto principale può essere descritto come tendente all’opposizione di due dominanti monocrome, mentre quello dei subcontrari è relativo alla indifferenza della policromia, come in questo schema:

Anche questo quadrato ha una certa utilità, poiché consente di analizzare la dinamica dell’applicazione delle categorie plastiche, le loro transizioni. Ad esempio, la policromia totale delle sequenze iniziali sembra ripetersi nelle immagini televisive viste da Halloran. Ma non è esattamente così, perché il filtro del teleschermo le fa tendere verso la non-policromia.

Abbiamo così rinvenuto un sistema assai articolato di isocromie. Da qui, siamo passati a interrogarci sulla possibilità di collegarle con un sistema altrettanto articolato di isotopie semantiche, allo scopo di individuare l’esistenza di formanti figurativi capaci di consentire un’interpretazione del testo. L’operazione non è stata particolarmente difficile. L’isocromia del rosso, infatti, è associata in modo persino evidente con il tema della follia omicida, passando per quasi tutti i dettagli locali con cui è associata: il sangue, l’ascensore (che non funziona e non si apre mai, come se fosse guasto), il gatto delle nevi (rotto), i corpi feriti ("rotti" anch’essi), le freccette (che colpiscono il bersaglio), il bagno (in cui il vecchio guardiano Grady e quello nuovo Torrance dialogano e brindano insieme), e addirittura gli abiti (sono rossi quando vi sono scene di violenza o visioni dei fantasmi del passato). L’associazione è, probabilmente, consentita da un passaggio semico: il rosso è, infatti, "acceso", termine che può definirne la tonalità e l’intensità sul piano dell’espressione e il "calore" passionale sul piano del contenuto. Peraltro, va notato che l’isocromia del rosso fa la sua apparizione in corrispondenza con "visioni" dei personaggi (Danny, Jack, Halloran e nel finale anche Wendy che entra in sintonia con lo "shining" del figlio). Kubrick adotta una tecnica di ripresa specifica per renderne conto. Comincia con dei primi piani di un personaggio, poi se ne distanzia con un movimento di camera all’indietro, e poi monta la "visione", che risulta così una soggettiva del personaggio stesso. Si tratta di un sagace impiego dell’enunciazione enunciata, e della tecnica del débrayage/embrayage. Le stesse osservazioni, tuttavia, possono essere avanzate per quanto concerne l’isocromia che contrasta la precedente, cioè quella del bianco/azzurro. La loro distribuzione nei dettagli è parimenti significativa: la neve, la cucina abbandonata (senza fuochi), i bagni di servizio, la dispensa frigorifera, le pareti senza quadri o fotografie, le porte dell’appartamento in cui vive la famiglia (bianche, laddove quelle delle stanze dell’albergo sono marroni). In questo secondo caso, possiamo parlare di una associazione col tema dell’isolamento e della solitudine, e anche qui il passaggio fra il piano dell’espressione e quello del contenuto è analogo al precedente, perché possiamo definire "freddo" il colore secondo la sua tonalità e intensità, ma il termine è anche qui passionalmente rilevante. Peraltro, va rimarcato che la neve e il gelo costituiscono anche la via di fuga di Danny e Wendy, mentre distruggono Jack, che non sa uscirne, e possono dunque essere eventualmente assimilati all’idea di razionalità (che nel linguaggio comune è solitamente definibile come "fredda"). Se il contrasto fra rosso e bianco/azzurro costituisce, come si è visto, un’opposizione timica fondamentale, resta da chiedersi cosa possa indicare la policromia. La mia ipotesi è che —sempre per via contrastiva— possa essere il luogo dell’apatia e dell’indifferenza sociale, non a caso "opacizzato" dalla traduzione in immagini televisive o nel bianco e nero delle fotografie. Forse, è il cosiddetto "senso di realtà", concetto che spesso è stato trattato da Kubrick con la massima ostilità intellettuale. Si aprirebbe, qui, lo spazio per una ulteriore possibile riflessione filosofica.

Basti, per il momento, sottolineare come il concetto di semi-simbolico risulti fecondo e produttivo, e consenta di far avanzare un poco la discussione sulla semiotica stessa, riavvicinandola a molte pratiche testualiste. Ma non solo: riavvicinandola a quegli ambiti filosofici poco propensi ad accettare il riduzionismo semiotico, e portando la ricerca del valore estetico, dell’individualità dell’opera, verso la connessione, forse nuovamente possibile, fra segni e passioni, fra segni e valori.

 

NOTAS

1 Intendo col termine "oggetto teorico"quanto affermato da Hubert Damisch: la rappresentazione di un oggetto può rinviare al principio della sua organi-zzazione astratta, perché la convoca esplicitamente, o perché implicitamente la richiede, o perché ne impone la riflessione ai fruitori. Cfr. Yve-Alain Bois et al., "A Conversation With Hubert Damisch", October, 85, 1998.

2 Cfr. fra gli altri Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, La nuova Italia, Firenze 1977;         [ Links ] Michel Ciment, Kubrick, Calmann-Lèvy, Paris 1980;         [ Links ] Sandro Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche, Parma 1990;         [ Links ] Ruggero Eugeni, Invito al cinema di Stanley Kubrick, Mursia, Milano 1995;         [ Links ] Giorgio Cremonini, Shining, Lindau, Torino 1999;         [ Links ] Mario Falsetto. Stanley Kubrick: A Narrative and Stylistic Analysis, Greenwood Press, Westport 1994;         [ Links ] Paul Mayersberg, "The Overlook Hotel." Sight & Sound, Winter 80/81; pp. 54-57;         [ Links ] "Kubrick, l’homme du controle absolu." Cahiers du Cinéma no. 534 Apr 1999;         [ Links ] Omar Calabrese, "Le strutture narrative di Kubrick", Prometeo, 16, 1986.         [ Links ]

3 Vedi il mio Come si legge un’opera d’arte, Mondadori, Milano 2006.         [ Links ]

4 Fin da Saussure (1912) si distingue, infatti, fra langue (sistema della lingua) e parole (processo linguistico). Altri binomi più o meno corrispondenti sono sistema e processo, oppure forma e sostanza (Coseriu, Hjelmslev 1943). Un allievo di Saussure, Charles Bally (1947), si è dedicato specificamente allo studio dello stile come fatto processuale, tentando di dare allo stile uno statuto strutturale.

5 Cfr. Algirdas Julien Greimas, Du sens, Seuil, Paris 1970.         [ Links ]

6 Emile Benveniste, Problèmes de linguistique générale 2, Gallimard, Paris, 1974.         [ Links ]

7 Fra tutti, citiamo il caso di Ilya Prigogine (1981), che forse per primo ha introdotto il concetto di complessità nelle scienze, nonché il tema della dialettica fra sistema globale/sistemi locali.

8 Cf. Louis Hjelmslev, Essais linguistiques, Nordisk Sprog, Copenaghen, 1959.         [ Links ]

9 Il tema dello "specifico" linguaggio di ogni singola arte (o tipologia di segni) era caratteristico della semiotica degli anni Sessanta e Settanta, e ha dato luogo a numerosi equivoci teorici. E ad altrettante polemiche sull’uso metaforico dello stesso termine "linguaggio". Cf. fra gli altri Emilio Garroni, Progetto di semiotica, Laterza, Bari 1972;         [ Links ] Umberto Eco, Segno, Isedi, Milano 1973.         [ Links ]

10 Altri hanno accennato a questa possibilità, come il Groupe µ (Traité du signe visuel, Seuil, Paris, 1992),         [ Links ] o io stesso (Omar Calabrese, La macchina della pittura, Laterza, Bari 1985 e Come si legge..., op. cit.).

11 Un caso interessante è quello osservato da Felix Thürlemann (Mantegnas Mailaender Beweinung. Die Konstitution des Betrachters durch das Bild, Constanz, Perfect, 1997) a proposito del Cristo morto del Mantegna, nel quale sono visibili due tipi di prospettiva (una per il Cristo, una per i piangenti al suo fianco) e due tipi di cromatismo (monocromo il Cristo, policromi i piangenti). Non si tratta di errori, ma della volontaria creazione di una doppia bi-isografia.

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