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Tópicos (México)

versión impresa ISSN 0188-6649

Tópicos (México)  no.62 México ene./abr. 2022  Epub 28-Mar-2022

https://doi.org/10.21555/top.v62i0.1215 

Filosofía en el espacio público

La materia della sovranità. Una critica filosofica dei muri

The Matter of Sovereignty: A Philosophical Critique of Walls

Ernesto C. Sferrazza Papa1 
http://orcid.org/0000-0001-5476-2594

1Pontificia Universidad Católica de Chile.Chile ernesto.sferrazza@uc.cl


Riassunto

Nonostante l’immagine postmoderna di un mondo liscio e senza confini, nell’epoca contemporanea le barriere fisiche rappresentano lo strumento fondamentale dell’articolazione politica dello spazio statale. Tuttavia, esse sollevano numerosi problemi etici e politici. Quest’articolo presenta una critica filosofica della razionalità teicopolitica, ossia della politica dei muri. Nella prima sezione si tratteggia la razionalità delle teicopolitiche contemporanee partendo da due paradigmi teicopolitici antichi. Nella seconda sezione si individua nel muro l’elemento che invalida l’immagine di un mondo globale privo di confini. Nella terza sezione si analizza il muro in quanto strumento di protezione del corpo statale. Nella quarta sezione si evidenziano le problematiche etiche e politiche prodotte dai muri. Nella quinta sezione sosteniamo che i muri rappresentino forme spettacolarizzate di sovranità. Nella conclusione si riassumono i risultati e si suggerisce che, in ultima istanza, le logiche teicopolitiche fomentino un sentimento paranoico a livello globale.

Parole chiave: muro; Stato; sovranità; potere

Abstract

Despite the postmodern image of a smooth and borderless world, physical barriers currently represent one of the most important instruments of political articulation of the statal space. However, several ethical and political problems arise from it. This paper presents a philosophical critique of teichopolitical rationalities, namely, the politics of walls. The first section analyses two ancient teichopolitical paradigms. The second section analyses the wall as an element that nullifies the image of a global borderless world. The third section deals with the wall as a protective instrument of the statal body. The fourth section highlights the ethical and political problems produced by walls. In the fifth section we argue that walls represent a spectacularized form of sovereignty. In the conclusions I summarize the results and suggest that teichopolitical logics foment a feeling of paranoia on a global level.

Keywords: wall; state, sovereignty; power

1.Il paradigma teicopolitico antico: Platone e Aristotele1

Nel vocabolario filosofico e politologico contemporaneo va lentamente affermandosi una nozione che cattura la materialità dei rapporti di potere che si inscrivono oggigiorno sullo spazio globale: teicopolitica. Termine coniato dagli studiosi francesi Florine Ballif e Stéphane Rosière, teicopolitica deriva dal greco teichos (τείχος), vocabolo utilizzato per indicare il muro di cinta della città. Nelle parole dei due autori, con teicopolitica bisogna intendere “qualsiasi politica di recinzione [cloisonnement] dello spazio, in generale connessa a una preoccupazione più o meno fondata di protezione di un territorio, e dunque mirata a rafforzarne il controllo” (Ballif e Rosière, 2009, p. 194).

Rispetto all’immagine postmoderna di un mondo fluido, liquido, senza confini o percorso da confini estremamente permeabili,2 la teicopolitica si presenta piuttosto come il riconoscimento del riemergere di una logica politica materiale e concreta che riattiva le strategie classiche di messa in sicurezza dello spazio. Tale logica risponde alla retorica dell’assedio,3 dell’invasione, della città tenuta sotto scacco dal nemico, attraverso l’arte -nel senso greco del termine: tecnica (τέχνη), sapere pratico- di difendere lo spazio murandolo.

Di contro alla tendenza postmoderna a interpretare le logiche del potere nei termini di una progressiva virtualizzazione dei suoi mezzi, sembra allora opportuno sostenere che nell’epoca contemporanea sia precisamente il muro, nella sua concreta fisicità, lo strumento per eccellenza di organizzazione dello spazio politico globale. Non vi è in questo senso una “rinascita” dei muri in seguito alla loro apparente scomparsa, simboleggiata dalla caduta del muro di Berlino: i muri hanno sempre continuato a lavorare come oggetti del potere, se pur all’interno di logiche spaziali stravolte rispetto a quelle antiche e moderne. Essi rappresentano la materializzazione del potere esercitato sullo spazio, ne segnano le prerogative territoriali: perimetrando il luogo di esercizio del potere sovrano, i muri non sono solamente uno strumento di cui la sovranità si serve, ma ne sono la rappresentazione visibile.

Dispositivo privilegiato di differenziazione spaziale, che inscrive direttamente sulla nuda terra la dialettica fra identità e alterità, con il muro contemporaneo fa la sua ricomparsa una razionalità originaria ed elementare che trova già nella sapienza greca un primo tentativo di teorizzazione. È dal pensiero antico, infatti, che deriva un’indicazione fondamentale per comprendere continuità e differenze tra il paradigma teicopolitico greco e quello contemporaneo: se la sicurezza e la vulnerabilità di una comunità, di una polis, dipendono dalla fortificazione dei suoi confini, allora il dispositivo fondamentale per salvaguardare e garantire una vita buona agli abitanti è il muro, la barriera, la cinta di protezione.

Alcuni passaggi della filosofia politica greca mettono esplicitamente a tema l’idea per cui il destino di una comunità dipende dalla sua capacità di materializzare i confini. La saggezza politica antica sapeva perfettamente che la protezione del confine spaziale di una comunità è uno dei punti fondamentali per la salvaguardia della comunità stessa: come fondare more philosophico questa evidenza?

È in Platone che troviamo il primo confronto puntuale con il problema dei confini murati. Platone ha lasciato in dote al pensiero occidentale l’idea che costruire una comunità politica significhi tentare di riprodurre concretamente un modello di polis ideale. Metafisica e politica si sovrappongono: se la realtà è la concretizzazione imperfetta di un modello, allora quanto più il modello tenderà alla perfezione, tanto meno la sua realizzazione sarà imperfetta.

In un punto fondamentale delle Leggi Platone argomenta sulla necessità di lasciare privi di fortificazione i confini della polis. Murare il confine, per lui, è un segno femmineo di vigliaccheria, un sintomo di debolezza. La vera difesa della comunità, questo l’argomento di Platone, passa dall’uso che gli abitanti sono in grado di fare dei loro corpi. Essi devono essere abili, desti, vigili, pronti a non farsi mai trovare impreparati in caso di attacco nemico. Una polis murata è in realtà uno spazio altamente insicuro, poiché il senso di sicurezza ingenerato nei soggetti dalle mura produce individui pigri e corpi deboli, inadatti alla difesa, incapaci di respingere un attacco, poco ferrati nell’arte di resistere agli assedi. Confidare unicamente nelle mura in quanto strumento di difesa abbassa pericolosamente le difese immunitarie del corpo politico:

Quanto alle mura, Megillo, io sarei d’accordo con Sparta di lasciarle dormire distese a terra e di non innalzarle.; i motivi sono questi. Bello è a tal proposito anche il verso poetico che viene celebrato e che dice che le mura devono essere di bronzo e di ferro piuttosto che di terra. Ma oltre a questo il nostro piano si esporrebbe giustamente a moltissimo riso, se cioè da un lato mandassimo ogni anno nel paese i giovani, ora per scavare fosse o trincee, ora anche per bloccare i nemici con opere di fortificazione, per non lasciare che mettano piede oltre i confini del paese, e se invece dall’altro lato circondassimo di mura la città, cosa che innanzitutto non è affatto utile per la salvezza della città, e inoltre suole produrre uno stato di mollezza nelle anime degli abitanti, invitandoli a rifugiarvisi dentro e a non opporsi ai nemici (Leggi, VI, 778d-779a).

Una comunità murata è il sintomo di una comunità decadente, debole. Il modello ideale di città per Platone è dunque Sparta: non circondata da mura, ma vigorosa e in salute come i suoi abitanti. Vale in Platone un principio analogico, che rimanda dall’individuo al collettivo: il corpo del singolo è lo specchio del corpo sociale. Le proprietà dell’uno sono le proprietà dell’altro.

All’argomento platonico risponde la filosofia politica aristotelica, con la quale viene inaugurata la legittimazione filosofica della teicopolitica. Riferendosi evidentemente all’ipotesi platonica delle Leggi, nella Politica Aristotele scrive: “quelli che sostengono che possono fare a meno di mura le città forti del loro valore, pensano in modo un po’ troppo antiquato che non tiene conto del fatto che le città che si vantavano di questa bravura sono state confutate dai fatti” (Politica, 1330b30).

Ricostruiamo l’argomento aristotelico. Il fine della polis è la vita felice dei suoi abitanti: la città migliore è quella che garantisce e realizza il massimo grado possibile di felicità. Solo in presenza di condizioni favorevoli è possibile una vita pienamente etica, e tali condizioni sono soprattutto strutturali: clima mite, salubrità dell’aria, assenza di acque stagnanti. A ciò si aggiungono due condizioni fondamentali, concettualmente dipendenti, per poter raggiungere un’autentica felicità: essere liberi e vivere in una condizione di stabile pace. Al fine di raggiungere e mantenere tali condizioni, la città dovrà essere costruita in modo tale da scongiurare il più possibile il rischio di guerra, o comunque in modo tale da rendere gli attacchi dei nemici a tal punto faticosi da scoraggiarli. In caso di sconfitta, infatti, gli abitanti cadrebbero in schiavitù -una schiavitù ovviamente non naturale-4, e certo non sarebbero felici. Il primo obiettivo nella costruzione della polis è scoraggiare il nemico dall’attaccarla; il primo strumento di difesa sono dunque le mura. L’altra strategia discussa da Aristotele, ossia l’isolamento spaziale, non solo non è consigliabile, ma addirittura innaturale, stante la tesi aristotelica dell’uomo come ζῷον πολιτικόν. Murare la polis rappresenta da questo punto di vista un compromesso indispensabile per evitare allo stesso tempo l’esposizione volontaria al pericolo e l’isolamento geografico: “il non voler cingere di mura la città è lo stesso che il cercare una regione ben chiusa all’invasione del nemico e poi eliminare da essa tutti i luoghi montuosi” (Politica, 1331a5). Una polis priva di mura, chiosa Aristotele, è destinata a essere invasa.

Ora, di questi due paradigmi, nell’epoca contemporanea va riattivandosi, certo in tutt’altro contesto materiale e storico, quello aristotelico. D’altro canto, se volessimo portare all’estremo l’argomento aristotelico, dovremmo logicamente sostenere che la teicopolitica corrisponde alla logica dello spazio ridotto a bunker (cfr. Virilio, 2008, pp. 17-23): se il nemico è costantemente in agguato, allora una società potrà difendersi solamente impedendo, o rendendo estremamente complesso e filtrato, il rapporto con l’esterno. Se la strategia più funzionale per raggiungere questo scopo è la difesa dello spazio, allora l’unità teorico-pratica di questo discorso immunologico (cfr. Esposito, 2002), che preserva le vite ponendole al riparo da attacchi esterni, è il muro inteso come barriera protettiva del corpo sociale. Il muro, da questo punto di vista, è un’articolazione materiale dei bordi della comunità, concretizzata al fine di produrre un regime di sicurezza interna.

L’epoca contemporanea assiste a un riattivarsi di questa antica logica spaziale, così come dei desideri impliciti ch’essa porta con sé. Desideri innanzitutto di sicurezza, generati dall’identificazione tra il corpo dell’individuo e il corpo dello Stato; come ha sottolineato Wendy Brown, “la vulnerabilità e la indeterminatezza dello Stato-nazione, la permeabilità e la violazione, sono avvertite dal soggetto come proprie” (Brown, 2013, p. 111): ogni minaccia, reale o presunta, nei confronti dello Stato, viene percepita come un attacco diretto all’integrità fisica dei corpi dei suoi abitanti.

Per analizzare il paradigma teicopolitico contemporaneo va innanzitutto specificato ch’esso, identificando una precisa razionalità politica volta alla securitarizzazione dello Stato, si compone sia di elementi discorsivi -il principio della sicurezza, il controllo dei flussi migratori come difesa dell’identità, la logica della sorveglianza degli individui potenzialmente pericolosi- sia non discorsivi -i muri interstatali, le frontiere, le dogane-. I due assi della teicopolitica, tuttavia, non sono autonomi, ma si intersecano continuamente: gli elementi non discorsivi si installano su una razionalità discorsiva dominante, tipica di quella società del rischio descritta, fra gli altri, da Ulrich Beck (cfr. Beck, 2000); a loro volta, gli ordini di discorso dell’odierna teicopolitica si consolidano sfruttando logiche di materializzazione politica dello spazio. La tecnologia umana e quella materiale si rimandano a vicenda. Studiare la razionalità dominante di una società teicopolitica significa dunque analizzare i punti di tangenza o di intersezione fra l’ordine materiale e quello immateriale mediante i quali si articola lo spazio del vivente.

Così come nello spazio globale differenti istanze politiche si sovrappongono, si giustappongono, s’intersecano, allo stesso modo è possibile riscontrare una pluralità dei mezzi attraverso cui l’articolazione politica dello spazio viene prodotta. Ballif e Rosière hanno proposto una classificazione degli strumenti teicopolitici, generalmente indicati con il termine barrière. La classificazione si basa su una serie di variabili che possono essere combinate: l’effettiva funzione della barriera - rallentamento, blocco, filtraggio preventivo-, la sua complessità tecnologica -fossato, filo spinato, smart border-, le strategie cui è in grado di rispondere, la più o meno elevata militarizzazione. I due studiosi hanno individuato quattro classi di dispositivi teicopolitici: la marca, la recinzione, il muro, il fronte. A ognuna di esse fa riferimento una specifica logica di gestione della mobilità dei corpi, la quale a sua volta risponde a una precisa istanza discorsiva quale può essere, ad esempio e perlopiù, la necessità di tutelare la sicurezza di un territorio statale contrastando il flusso di migranti potenzialmente pericolosi.

Poiché mettono al centro della loro legittimazione il problema della sicurezza statale, il modello delle teicopolitiche contemporanee è di matrice schiettamente hobbesiana. Secondo Hobbes, infatti, una delle funzioni fondamentali dello Stato, il prodotto dell’uscita dalla condizione di guerra diffusa di tutti contro tutti, consiste nel garantire la sicurezza di coloro che si uniscono attraverso il pactum subjectionis “contro i nemici di fuori” (Hobbes, 2011, p. 143). La teicopolitica è, insomma, il prodotto di un regime discorsivo immunitario, ossia fondato sulla paura diffusa del contatto con lo straniero,5 concretizzato attraverso una fortificazione materiale dei confini.

La posta in gioco delle logiche teicopolitiche è enorme, poiché in esse ne va delle modalità mediante cui differenti comunità ripartiscono lo spazio che abitano. Invocati e realizzati, se pur in modalità più o meno spettacolari e più o meno rivendicate pubblicamente, dalla maggior parte dei governi democratici occidentali e non, i muri disegnano lo spazio globale contemporaneo e, probabilmente, quello a venire. È per questa ragione urgente esercitare su di essi una critica che ne ricostruisca non solamente le logiche di funzionamento interno (quelle che con Foucault potremmo chiamare “tecnologie politiche”), ma anche il ruolo simbolico ch’essi ricoprono nella nostra epoca, ciò di cui possono rappresentare il sintomo.

2. Il liquido e il solido

Si registra una evidente contraddizione tra la visione postmoderna mainstream del mondo come spazio di flussi, liquido, virtuale, senza confini (cfr. Virilio, 1981; Ohmae, 1990; Bauman, 2008), e la continua e ossessiva moltiplicazione dei confini interstatali, oggigiorno vieppiù declinata nella forma di un loro consolidamento materiale. Nonostante la concezione moderna dello spazio (europeo) come insieme pluralistico di Stati presupponga il confine come strumento di articolazione della differenza politica spazializzata, l’epoca contemporanea fa del confine non più una linea invisibile, negoziabile, che produce l’identità garantendo, se pur in forme problematiche, la possibilità dell’incontro con l’altro, bensì una materializzazione fisica della differenza. I muri che solcano e rigano lo spazio globale, tutt’altro che fluido e liquido, rappresentano lo strumento privilegiato attraverso cui gli Stati articolano lo spazio, amministrano le prerogative della sovranità, organizzano i flussi migratori, producono gerarchie a livello globale. Sono in questo senso “artefatti politici” (cfr. Winner, 1980; Sferrazza Papa, 2018), oggetti deputati all’esercizio del potere in forza della loro materialità. Radicalizzano le “percezioni della delimitazione dello spazio” e producono una “massificazione degli elementi respinti” (Razac, 2001, p. 60). Sono altresì oggetti simbolici che rappresentano la potenza della sovranità statale, veri e propri palcoscenici dove lo Stato mette in scena il proprio potere: tutta una complessità spaziale e politica ruota intorno all’apparente semplicità dei muri.

Il riconoscimento di questa complessa dialettica elementare fra la liquidità postmoderna e la solidità contemporanea rappresenta il punto di partenza per elaborare il quadro concettuale di una possibile ermeneutica dei muri contemporanei, mostrando come essi non si limitino a separare Stati e popoli, ma producano spazi differenziali e forme molteplici, complesse e variabili di esercizio del potere.

In radicale controtendenza rispetto alla presunta liquidità del mondo postmoderno, un famigerato spazio composto da flussi, vettori di movimento, linee di fuga, mobilità estreme, circolazione forsennata di corpi e capitali, il muro è piuttosto un oggetto che suggerisce la prevalenza dell’elemento tellurico nella composizione dello spazio globale. Telluriche e ctonie sono infatti la pesantezza della materia, l’inerzia della pietra, l’attrito del mattone; telluriche sono tutte le cose materiali con le quali abbiamo quotidianamente a che fare, e che indicano una condizione di entanglement fra uomini e cose (cfr. Hodder, 2012), fra organico e inorganico, fra il vivente e il non vivente. All’interno di questo système des choses et des humains, il muro svolge una funzione specifica. Esso è un oggetto politico, ovvero un artefatto che implica e produce determinati rapporti di potere. Il muro è un filtro di corpi: ne blocca il flusso, lo devia, lo rallenta. Se è vero, come sosteneva Carl Schmitt (cfr. 2011b, p. 18), che è possibile restituire la storia del mondo nella forma di una dialettica conflittuale e non sintetizzabile fra elementi contrapposti, fra terra e mare, allora ciò che abbiamo detto suggerisce che è la dimensione tellurica a “paradossalmente” prevalere nel nostro tempo, e quindi a determinarne le logiche.

“Paradossalmente” giacché la lezione postmoderna ha insistito con forza proprio su un superamento della modernità, delle sue categorie e dellevisionidelmondocheessahaveicolato. Dellegrandiinvenzionidella modernità, il pensiero postmoderno ha sancito su carta la consumazione storica; senza considerare tuttavia che l’ordine delle cose, la realtà extralinguistica che eccede e deborda il recinto della teoria, mai si lascia mettere da parte. E così, mentre i teorici della postmodernità descrivono un mondo senza confini, dove lo Stato-Nazione andrebbe erodendosi in maniera inarrestabile, dove il conflitto sarebbe neutralizzato in virtù del principioermeneuticodeldialogofralediversecomunitàdiparlanti, dove si farebbe strada un cosmopolitismo di matrice kantiana, la modernità si riappropria dei suoi spazi radicalizzandosi in maniera reattiva e, dunque, violenta. Le spinte fluide e deterritorializzanti delle istanze per eccellenza antimoderne -economia di mercato, neutralizzazioni e spoliticizzazioni, globalizzazione e mondializzazione- hanno avuto come contropartita una radicalizzazione di quella mappatura del mondo che definisce il cuore pulsante del moderno: un mondo ben sezionato, disegnato con compasso e righello, perfettamente ripartito, costellato di entità rigorosamente statali.

In questa contropartita va pensata la grande differenza, il cambio di passo della “nostra modernità” rispetto a quella classicamente intesa. Infatti, mentre il pensiero moderno porta in grembo una dialettica interstatuale che è sì essenzialmente conflittuale, ma all’interno di un quadro giuridico e politico definito e normato,6 la dinamica spaziale contemporanea tende piuttosto a produrre quella che potremmo definire una forma di dissociazione interstatale. Non è l’hobbesiano conflitto fra Stati a definire il nostro tempo, bensì la loro divisione materiale, costantemente ribadita: divisione e articolazione dello spazio che, come vedremo, non può che essere a sua volta intrinsecamente politica, giacché produce gerarchie concrete fra gli individui che popolano le varie caselle dello scacchiere mondo. E, così come nel gioco degli scacchi l’importanza dei diversi pezzi è data dalla loro capacità di movimento, allo stesso modo è a partire dal regime di mobilità del singolo individuo -ossia dai modi e dalle possibilità che egli ha di muoversi nello spazio- che l’articolazione ultramoderna dello spazio può essere analizzata come una gerarchia globale che ripartisce i viventi e ne organizza lo stare al mondo.7

Poiché ciò che nello spazio ultramoderno viene preso in carico dal potere come suo punto di applicazione privilegiato è la mobilità dei viventi, ossia la possibilità per il soggetto migrante di transitare da territorio a territorio, allora una prospettiva critica dovrà sottoporre a indagine gli strumenti che rendono possibile questa specifica articolazione spaziale e che organizzano materialmente la mobilità dei corpi. Barriere, frontiere, fili spinati, muri e muraglie: gli oggetti che articolano lo spazio globale devono essere l’oggetto di una teoria critica del nostro tempo.

Tale prospettiva implica il riconoscimento dell’importanza di una teoria critica degli strumenti del potere che integri l’indagine del loro significato simbolico con un gesto analitico, proprio della tradizione materialista, volto a investigarne le implicazioni derivanti dalla loro fisicità. La critica della violenza spaziale del nostro tempo, che costruisce muri per organizzare in maniera funzionale al potere il movimento dei corpi, presuppone, oltre a un’ermeneutica dello spirito, un’ermeneutica della materia.

3. La pelle dello Stato

Oggettiapparentementesemplici, imuricontemporaneisonoinrealtà dispositivi complessi che assolvono molteplici funzioni. Materializzano una frontiera per amministrarne meglio l’attraversamento, e dunque lavorano in funzione dei flussi migratori, della circolazione dei corpi: la filtrano, la bloccano, la organizzano. Essi coprono tutti i gradi del genio ingegneristico: da sbarramenti elementari e non particolarmente sofisticati, con il solo scopo di impedire o rallentare il passaggio, a smart borders tecnologicamente raffinatissimi, in grado di organizzare razionalmente ingenti flussi migratori mediante sofisticate tecnologie di riconoscimento facciale e profiling (cfr. Cuozzo, 2017, p. 23). Nonostante tutte le differenze che intercorrono fra i diversi muri e che ne renderebbero caotico e frammentario l’elenco puntuale, alcune proprietà generali possono certamente essere individuate.

Il minimo comune denominatore di tutti i muri potrebbe essere individuato nel loro valore politico e antropologico. Dal punto di vista politico, come abbiamo accennato e come vedremo più approfonditamente in seguito, essi sono una fortificazione dei confini dell’apparato statale, e dunque vanno studiati come mezzi della sovranità statale; ciò, dunque, li separa qualitativamente dai muri premoderni, per quanto in entrambi i casi si ha a che fare con oggetti deputati a garantire il monopolio del potere da parte dei gruppi dominanti nei confronti dei subordinati. Dal punto di vista antropologico, i muri rappresentano un tentativo elementare di protezione, una risposta immediata al desiderio di sicurezza dell’essere umano (cfr. Quétel, 2013, pp. 245-252).

Se volessimo riassumere per immagini la storia dell’umanità, pochi oggetti disegnerebbero il nostro immaginario storico come i muri. La Grande Muraglia Cinese, il limes romano, i muri che disegnavano il paesaggio dei comuni nell’Italia medievale, fino all’età contemporanea, alla Linea Maginot, al fin troppo celebre Muro di Berlino, al muro fra Israele e Palestina, al “muro della vergogna” che separa USA e Messico (cfr. Graglia, 2019). Molti altri esempi potrebbero essere aggiunti. Se il muro rappresenta un elemento comune a ogni epoca, è perché è testimonianza, pur nella sua apparente semplicità, del gesto politico per eccellenza dell’umano, ossia la difesa dello spazio finalizzata alla fondazione di una comunità protetta. Il muro ribadisce tale gesto recingendo lo spazio abitato dalla comunità, configurandosi come uno strumento che protegge isolando: il gioco politico fra le parti è qui fondato sulla separazione, unica fonte possibile di sicurezza, e le implicazioni politico-antropologiche di questo gesto originario non possono essere ignorate, ma necessitano di una serrata analisi.

Oltre al valore politico che approfondiremo nel proseguo del saggio, la divisione attiva che il muro produce ha, come abbiamo accennato, un significato profondamente antropologico. Il muro richiama una dimensione antropologica primaria, essenziale, originaria: poiché il corpo (biologico o sociale) è vulnerabile, allora bisognerà approntare tutta una serie di misure di protezione per renderlo invulnerabile. Il muro rappresenta la ricerca di tale invulnerabilità del corpo sociale, la produzione di una pelle senza pori.8

Letti dalla specola della ricerca di invulnerabilità, i muri comprovano quella straordinaria intuizione con la quale Elias Canetti apriva Massa e potere: “tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati” (Canetti, 1981,p. 17). Nell’antropologia sviluppata da Canetti, la politica intesa come coesistenza di più individui nello stesso spazio consiste innanzitutto nella produzione di distanze. Ogni distanza da uomo a uomo deriva dalla necessità di preservare intatta la pelle, primo strato del corpo ad entrare in contatto con il mondo esterno, e dunque soglia massimamente in pericolo.9 Analogicamente, possiamo sostenere che i muri, in quanto barriera protettiva, si configurino come quella epidermide di cui lo Stato si riveste per garantire la propria sicurezza. Vale la pena approfondire questo parallelismo sociobiologico.

Lo psicanalista Didier Anzieu ha colto meglio di chiunque altro le implicazioni più profonde dell’idea della pelle come superficie di separazione e, allo stesso tempo, di contatto del soggetto con il mondo esterno. Secondo Anzieu, la pelle è il primo strato del corpo ad essere investito psichicamente: attraverso il contatto con la pelle della madre il bambino percepisce il mondo esterno, se ne appropria mediante la suzione del seno materno, ma allo stesso tempo esperisce la sicurezza di aver depositato al suo interno il materiale necessario alla crescita e allo sviluppo. La pelle mette in contatto con l’esterno, ma allo stesso tempo protegge l’interno. Essa, nelle parole di Anzieu, è “un dato originario di ordine organico e nello stesso tempo di ordine immaginario, un sistema di protezione della nostra individualità e contemporaneamente il primo strumento e luogo di scambio con gli altri” (Anzieu, 2005, p. 13).

Trasportando in chiave politica la tesi di Anzieu, possiamo affermare che anche il muro, epidermide di ogni comunità politica territorializzata, svolge questa funzione primordiale di messa in sicurezza dello spazio. Tuttavia, la presunta impenetrabilità del muro sabota l’altra proprietà della pelle, che Anzieu sottolinea come indispensabile per il processo psichico di formazione dell’individuo, ossia la relazione con il mondo esterno. Uno spazio murato è uno spazio protetto, che neutralizza in principio le invasioni sgradite del mondo esterno. Esso rappresenta la materia di questo bisogno primordiale, comune a tutti i viventi, di tutelare il dentro dalle insidie del fuori. Ma, per far ciò, nega risolutamente che vi possa essere contatto e scambio fra il dentro e il fuori: pelle senza pori, il muro, eterogeneo rispetto ai suoi fini, intossica il corpo sociale che pretende di proteggere. Le possibili conseguenze “psichiche” a livello collettivo di questo processo verranno analizzate nella parte finale dell’articolo.

4. Dialettica della Muraglia

Dato il bisogno del vivente di produrre uno spazio sicuro, non stupisce che i muri compaiano in tutte le tappe della storia dell’umanità. Alcuni di essi hanno segnato a tal punto il nostro immaginario collettivo da divenire dei veri e propri paradigmi, modelli entro i quali tentiamo di sussumere la complessità dell’esperienza concreta, sempre variabile e molteplice, resistente a ogni tentativo di catalogazione. Il muro di Berlino, ad esempio, ha per decenni rappresentato “l’apogeo dell’esclusione, della divisione materializzata” (Quétel, 2013, p. 10), e la qualificazione assiologica del muro che separa gli Stati Uniti e Messico, significativamente battezzato “muro della vergogna”, suggerisce lo “scandalo morale” che i muri provocano in alcuni settori dell’opinione pubblica.

Se volessimo tracciare una genealogia della teicopolitica in modo da individuarne i nuclei paradigmatici, non potremmo che riandare indietro nel tempo al 481 a.C., quando il regno di Qin Shi Huangdi decise di costruire un wan li chang cheng, un muro di diecimila li, per proteggersi dai Chu, popolazioni nomadi del Nord, dando così il via al mito eterno della Grande Muraglia. Di tutta la storia della Muraglia cinese, estrapoliamo il nucleo, l’essenziale, ossia le ragioni del ricorso a un dispositivo maestoso quale il muro.

Si tratta essenzialmente di un muro difensivo e politico, che mentre separa uno spazio, assegna agli individui un determinato rango. La Muraglia cinese è un esempio di produzione materiale di spazi differenziali: la linea di ciottoli che poi divenne la Grande Muraglia inizialmente doveva rappresentare una barriera più simbolica che realmente efficace: essa serviva ad assegnare il valore di barbari alle popolazioni nomadi che stavano dall’altra parte. La Muraglia, insomma, ribadiva fisicamente un processo di gerarchizzazione identitaria, di statuizione di un Noi moralmente superiore rispetto a un Loro. La differenza spaziale operata dal muro si traduceva dunque immediatamente in una differenziazione ontologica, in una gerarchia delle vite umane. Chi sta da questa parte del muro si stringe, in maniera solidare, comunitaria, identitaria, contro chi sta dall’altra parte del muro, contro il fuori, l’estraneo, l’ignoto. Chi sta di là è un diverso da respingere e combattere: la differenziazione spaziale funziona come differenziazione assiologica e politica e, allo stesso tempo, come produzione di un sentimento identitario forte. Il muro crea il popolo, e costituisce un elemento decisivo nella mitologia fondatrice della Cina; fino alle retoriche nazionalistiche di Mao Tse-Tung, che in epoca recente farà della Muraglia “una metafora di coesione nazionale” (Graglia, 2019, p. 20).

Franz Kafka, nel racconto Durante la costruzione della muraglia cinese (1931), ha sintetizzato in forma letteraria la posta in gioco della Muraglia, vale a dire il meccanismo di identificazione con il proprio simile mediante la produzione dell’alterità:

Ogni suo abitante era un fratello per il quale si costruiva una muraglia difensiva e che di questo ringraziava con tutto ciò che lui era ed aveva, unità! Unità! Petto a petto,una ridda di popolo, sangue non più rinchiuso nella grettezza della circolazione corporea, ma invece dolce rombante attraverso l’intera Cina, eppur capace di far ritorno (Kafka, 1970, p. 403).

La muraglia cinese, prototipo e archetipo millenario della separazione fra popoli, va dunque intesa:

[…] come confine tra due mondi, come linea di demarcazione tra l’interno e l’esterno, tra i civilizzati e i barbari, tra Noi (i cinesi) e Loro. La Grande Muraglia vuole essere unificatrice: tutto ciò che sta all’interno è Uno, e gli esuli che vogliono tornare nel loro paese parlano di un ‘ritorno dentro la Muraglia’. La Grande Muraglia è una visione del mondo, di un mondo finito (Quétel, 2013, p. 19).

Possiamo individuare uno snodo problematico di questa produzione fortemente identitaria che il muro allo stesso tempo inaugura e continuamente rinforza, dal momento che la sua esistenza rimanda a un passato mitologico che continuamente rinnova. La materializzazione della differenza spaziale che il muro produce impedisce infatti che il rapporto con l’alterità, con ciò che sta beyond the wall, venga esperito in termini che non siano di una radicale negatività. Prima che tattico militare -anzi: saranno le invasioni mongole di Gengis Khan nel XII sec. a sancire l’insufficienza strategica della barriera-, la muraglia è uno strumento simbolico-politico che permette di identificare materialmente e spazialmente una comunità separata rispetto all’estero (il Sud contro il Nord, hua contro i), sancendone in questo modo la diversità e, allo stesso tempo, la superiorità. La dislocazione spaziale relativa al confine stabilito dal muro si traduce immediatamente in una gerarchia tra l’umano e il non-umano. Piuttosto che essere uno strumento puramente difensivo, la muraglia è un dispositivo che produce identità attraverso l’annichilimento delle soggettività di coloro che da fuori cercano di penetrare nel territorio murato.

La Muraglia è dunque innanzitutto produttrice di una identità che si rapporta in maniera fortemente negativa con l’alterità, con il non-identico, con ciò che non è il Medesimo. Tuttavia, il problema è che la produzione d’identità a partire dal riconoscimento dell’alterità si basa, per l’appunto, sul riconoscimento. Qualsiasi dialettica del riconoscimento presuppone la conoscenza dell’altro per produrre il Sé, e ciò significa che qualsiasi processo di soggettivazione è già da sempre un processo di riconoscimento della intersoggettività (cfr. Ricoeur, 1990). Se il muro rappresenta precisamente l’abolizione della possibilità stessa di conoscere l’altro, come sarà possibile produrre il Sé se non, appunto, in una forma mitologica, inventata, immaginata? È ancora la penna di Kafka a svelare la fallacia su cui si basa la dialettica operata dai muri:

La grande muraglia contro chi doveva difendere? Contro i popoli del Nord. Io sono originario della Cina sudorientale. Nessun popolo del Nord là può minacciarci. […] Ma di questi settentrionali non sappiamo di più, non li abbiamo visti, e, se restiamo nel nostro villaggio, mai li vedremo anche se ci corrono addosso sui loro cavalli selvaggi. Troppo grande è il paese e non glielo permette, essi si ostineranno a vuoto (Kafka, 1970, p. 412).

L’argomento securitario utilizzato dalla “dirigenza”, da coloro che invitano il popolo cinese ad abbandonare tutto per andare a costruire la grande muraglia, è basato su una mistificazione: nessuno tra coloro intenti a costruire la muraglia conosce in realtà l’invasore. Nessuno ne ha addirittura mai visto uno. La Grande Muraglia è costruita contro un nemico che forse nemmeno esiste, ma produce in ogni caso effetti su coloro che la costruiscono, che si autorappresentano come un Noi precisamente perché presuppongono l’esistenza e la pericolosità di un Loro. Noie Loro, insomma,“nasconoinsieme” nelprocessodicostruzione della Muraglia. Quella che prima era una moltitudine disordinata di uomini, sparsa nel vastissimo territorio cinese, prende ora forma e si fa popolo. Il muro, insomma, non si limita a proteggere “i costruttori”, e forse nemmeno lo fa dal momento che non c’è probabilmente nessuno da cui proteggersi. Il muro li definisce in quanto tali.

Dietro l’argomento securitario che incoraggia gli uomini del Sud a costruire la Grande Muraglia si cela la ragione autentica di tale separazione materiale dello spazio, ossia la produzione di un’identità popolare reattiva rispetto a un’alterità che, in quanto categoria universale e astratta, non è in linea di principio né conoscibile né esperibile in concreto.

La produzione di uno spazio invulnerabile non rende chi sta fuori inoffensivo, ma produce un sentimento parrocchiale in chi sta dentro;costruendo la Muraglia, il popolo cinese costruisce allo stesso tempo una mitologia identitaria che è, per l’appunto, nient’altro che una mitologia. E, tuttavia, una mitologia estremamente resistente, poiché, come rileva Wendy Brown, nel momento in cui “l’Io finisce per essere definito, e non semplicemente protetto, da queste difese […] resiste accanitamente a qualsiasi decostruzione critica” (Brown, 2013, p. 136).

5. Il sipario del potere

Vi è un’altra dimensione da tenere nella più alta considerazione quando si analizzano i mezzi del potere, una dimensione che le teicopolitiche mettono in particolare risalto perché se ne servono come di un elemento costitutivo del loro funzionamento: la visibilità. Il potere si rivela anche attraverso una fenomenologia e una estetica dei propri strumenti, i quali, in quanto oggetti materiali, rientrano nella nostra esperienza sensoriale (cfr. Callahan, 2018, pp. 473-480).

La visibilità del potere e dei suoi mezzi ha un significato peculiare. Come già rilevava Michel Foucault, un’alleanza silenziosa lega modernità ed esibizione del potere. Il sovrano moderno opera mostrando senza sosta il suo ruolo di comando, in modo da ribadire la dialettica di dominanza rispetto ai sudditi ed eliminare in punta di principio la possibilità di ribellioni. In età moderna è soprattutto nella repressione del crimine che possiamo vedere in azione questo dispositivo politico della gloria del potere. Dal punto di vista del diritto penale, formalizzazione per eccellenza del potere sovrano dal momento che rende realmente giuridico il diritto di vita e di morte, Foucault in Surveiller et punir ha mostrato come la pena non dovesse essere proporzionata rispetto al crimine commesso -non si riesce a immaginare un crimine tale da “meritare” le torture inflitte a Damiens, così crudamente descritte all’inizio del libro-, bensì al potere detenuto da chi era deputato a giudicarne la gravità, ossia il sovrano. Se il potere sovrano è violento è perché dietro la minima infrazione si cela un tentativo di metterne in crisi l’assolutezza. Ogni ladruncolo, confliggendo con il sistema legislativo, è da questa specola un potenziale regicida. Lo splendore dei supplizi, nei quali il corpo martoriato in pubblica piazza diventa l’esempio della spettacolarizzazione del potere, è la mossa strategica attraverso cui il sovrano moderno recupera l’antica lezione di punire facendo soffrire, ed esibendo pubblicamente tale sofferenza affinché funga da monito. Doppio implicito in questa idea del potente come dispensatore del dolore: nulla più della vista del corpo punito può distogliere dal commettere un reato; il sovrano ha un diritto di proprietà sui corpi dei sudditi, e può dunque farne ciò che vuole. Egli detiene un potere sovrano, ossia di vita e di morte, ma tale potere rimane lettera morta se non viene costantemente ribadito ai sudditi, se non viene teatralizzato.

Lo splendore del supplizio è tale in quanto costruisce un triangolo fra il corpo del condannato, il sovrano e il pubblico. La sovranità si manifesta mediante un regime di visibilità totale, per il quale tutto deve essere mostrato affinché abbia un valore performativo sulla vita pubblica, per penetrare nelle anime di chi guarda. “Il corpo del suppliziato”, scrive Foucault, “si inscrive prima di tutto nel cerimoniale giudiziario che deve produrre, in piena luce, la verità del crimine” (Foucault, 2015, p. 38).

Tuttavia, rimane un fondo oscuro di questo spettacolo totale. Si noti che Foucault per indicare lo “splendore” del supplizio utilizza il termine éclat, che letteralmente significa “bagliore”: lo splendore è una luce intensa. In questo senso, lo spettacolo è un dispositivo che serve a rendere chiaro qualcosa, e allo stesso tempo è la modalità, la forma mediante cui questo qualcosa diviene pienamente visibile. Allo stesso tempo però, un regime di visibilità totale è un’arma a doppio taglio perché è soggetto a una dialettica immanente. Una luce particolarmente intensa è sempre qualcosa di accecante, ossia è qualcosa che, mentre mostra se stessa, impedisce di vedere altro. Guardare la luce solare ha come contropartita la cecità: come una sorta di coincidentia oppositorum, visibilità e opacità si accompagnano. Lo splendore della luce è la ragione per la quale solo essa può essere vista, e null’altro: la sua massimizzazione coincide con il nascondimento di ciò che si trova al di là. Nel caso dell’uso della violenza estrema nella prima modernità francese, i supplizi mostrano il corpo dilaniato e martoriato del torturato, ma allo stesso tempo velano ciò che si nasconde dietro a questo parossismo di violenza, ovvero la necessità da parte del sovrano di mantenere l’assolutezza del potere, che non è mai garantita in eterno, ma deve essere ribadita e ristabilita mediante l’uso estremo della forza.

I muri, essendo una spettacolarizzazione della sovranità, mettono in gioco una simile dinamica di visibilità del potere: la loro materialità dimostra la concretezza del potere dello Stato, che consolida i propri confini ribadendo pietra su pietra, mattone su mattone, lo spazio entro cui si esercita il monopolio della forza. I muri, in questo modo, riattivano l’immagine di uno Stato forte, deciso, protettore, parte integrante dello spazio abitato dai propri cittadini, e monito a chi cerca di penetrare quello spazio.

Una volta costruito il muro, tutti possono vederlo, e tutti possono così verificare in ogni istante l’effettiva esistenza di un potere statale che segna e fortifica i propri limiti. I cittadini possono, in questo modo, “contemplare la loro sicurezza” (Foessel, 2016, p. 9). Lo Stato cessa di essere un’entità puramente amministrativa e si rende visibile. Se Foucault aveva parlato di splendore dei supplizi per indicare l’alba del diritto penale francese, Nicholas De Genova parla giustamente dei muri contemporanei come di un rinnovato “splendore del confine” (De Genova, 2012): i muri sono la proiezione splendente e sempre visibile del potere statale, che si incarna in un artefatto, inscrivendosi così realmente sullo spazio, modificandolo, articolandolo, organizzandolo.

Nel suo studio fondamentale sul rapporto fra muri e sovranità, Brown dedica ampio spazio all’analisi della questione della visibilità del potere in rapporto alla dimensione artefattuale dei suoi oggetti. Brown insiste in particolare sulla dimensione teatrale e teologica che i muri assumono nell’epoca contemporanea, mettendo in relazione propaganda e spettacolarizzazione. La critica di Brown è fondata sulla non efficienza dei muri rispetto alla questione migratoria. I muri statali che disegnano la mappa reale del globo “spesso non sono niente più che gesti politici spettacolari e costosi” (Brown, 2013, p. 91). Se lo scopo dei muri è bloccare l’immigrazione clandestina, come i loro sostenitori non cessano mai di omettere, essi risultano assolutamente inefficaci. Nonostante la presenza di un muro alto fino a 5 metri, costruito in acciaio e pattugliato giorno e notte da elicotteri e ronde, il confine fra Stati Uniti e Messico è il confine più attraversato al mondo. Il ricorso al muro come dispositivo di gestione dei flussi migratori deve dunque trovare la propria ragion d’essere altrove.

Ma dove? Il muro è un segno, il combinarsi di un significante e di un significato. L’oggetto in sé, la sua pura materialità, indica un significato cheloeccede. Talesignificatoèdaricercarsinell’essereunmezzosimbolico del potere statale. Da questo punto di vista, i muri sono un simbolo e una promessa: restituiscono l’immagine di uno Stato pienamente funzionante, e per questo assicurano e garantiscono la protezione del corpo statale. La dimensione pienamente teatrale e spettacolare dei muri mette in discussione l’idea postmoderna di soft powers invisibili, sottili, dolci, che governerebbero la vita umana sostituendosi a poteri indiscreti, visibili, spettacolari. Olivier Razac, ad esempio, ha individuato nel filo spinato “un punto fondamentale di una storia del farsi virtuale della gestione politica dello spazio” (Razac, 2001, p. 76), dal momento che il suo utilizzo mostrerebbe che “i problemi moderni di gestione politica dello spazio possono essere risolti solo attraverso un alleggerimento del segno che delimita e una intensificazione dell’azione che respinge” (Razac, 2001, p. 75). Nella sua interessante analisi, tuttavia, Razac non prende in considerazione due elementi teorici fondamentali: da un lato, l’intensità dei risultati di un mezzo del potere non deriva direttamente dalla sua virtualizzazione; dall’altro lato, vi è una dimensione simbolica degli strumenti politici che eccede la funzionalità.

L’analisi di Brown è in questo senso particolarmente efficace nel mostrare la potenza simbolica dei muri. I muri contemporanei, la cui legittimità pubblica non può essere fatta derivare da una funzionalità che mostrano di non avere, sono in realtà una messa in scena, il tentativo di mostrare qualcosa nascondendo altro. “Il fatto che un muro dia l’idea di una frontiera più ordinata”, scrive Brown, “si traduce nella messa in scena di una sovranità capace, in quanto tale, di produrre ordine politico” (Brown, 2013, p. 95). I muri sono l’ultimo canto del cigno di una sovranità che, mentre inesorabilmente tramonto perché non più in grado di sostenere il peso delle sue prerogative, allo stesso tempo nasconde questo declino materializzandosi.

I muri, insomma, proprio perché mostrano l’apparente potenza dello Stato, allo stesso tempo testimoniano della sua crisi profonda. La volontà di potenza che vorrebbero proiettare è in realtà il segno della loro debolezza. La crisi della sovranità, questo il paradosso che i muri rendono evidente nel momento stesso in cui sono deputati a nasconderlo, si accompagna alla spettacolarizzazione dei suoi limiti territoriali.

In un certo senso, questo movimento di rivelazione e nascondimento era stato già teorizzato da Walter Benjamin nel suo studio sul Barocco. Secondo Benjamin, il sovrano barocco deriverebbe il suo potere dai gesti che lo spettacolarizzano. Al centro del potere moderno starebbe, dunque, la sua glorificazione. Il cuore pulsante del potere non sarebbe dunque il suo esercizio effettivo -i muri, come sottolineato in precedenza, non impediscono realmente l’immigrazione clandestina, ovvero: risultano inefficaci rispetto allo scopo per il quale sono predisposti- quanto piuttosto la sua esibizione continua. Nell’analisi di Benjamin, la teoria barocca della sovranità produce una glorificazione pagana del sovrano mediante la spettacolarizzazione dei suoi gesti. I muri, applicando l’analisi benjaminiana alla razionalità teicopolitica contemporanea, rappresentano una mera glorificazione del potere statale, la sua pura e semplice esibizione.

Vi è un’altra conseguenza che possiamo far derivare dalla teoria di Benjamin. Se il potere è essenzialmente una questione teatrale, allora la sua gloriosa esposizione è farsesca: mette in scena qualcosa che non esiste o, detto altrimenti, mette in scena la messa in scena stessa. Dietro al sipario allestito dal potere, dietro ai protocolli, dietro allo scintillio delle dimore barocche, si nasconde la vera essenza della sovranità, che l’estetica del potere punta a mascherare e obliare:

L’antitesi tra l’assolutezza del potere sovrano e la sua effettiva capacità di governare crea nel dramma una caratteristica peculiare, che solo in apparenza è di maniera, e che è possibile mettere in chiaro solo a partire dalla teoria della sovranità. Si tratta dell’incapacità decisionale del tiranno. Il principe, che ha la facoltà di decidere sullo stato d’eccezione, mostra alla prima occasione che decidere gli è quasi impossibile (Benjamin, 1999, p. 45).

Benjamin mette a tema la disarticolazione fra la sovranità assoluta e il suo esercizio effettivo, disarticolazione che è ben compendiata dalla celebre formula “le roi regne, mais il ne gouverne pas”. Portando all’estremo il parallelismo proposto: dietro il sipario delle grandi muraglie contemporanee, dietro tutte quelle pietre, mattoni, fili spinati, si nasconde una sovranità statale che non può più organizzare e risolvere la sfida che i flussi migratori contemporanei lanciano allo spazio globale e alle sue logiche politico-economiche. E che, in questa incapacità, si rifugia in antiche logiche di difesa dello spazio che hanno come risultato principale quello di fomentare retoriche nazionaliste e securitarie, la diffidenza fra le diverse popolazioni, un sentimento di reciproco sospetto-Shamir (2005) ha parlato in questo senso di un paradigm of suspicion che dominerebbe l’epoca contemporanea- e un’equivalenza fra migrante e individuo pericoloso (cfr. Nail, 2016a) ormai acriticamente penetrata nel dibattito politico.

Dunque, ciò che la visibilità ostentata del muro, nella sua inefficacia pratica, realmente produce è una dialettica irrisolvibile fra l’identico - ciò che sta al di qua del muro- e l’altro -ciò che sta al di là del muro-. I muri rivelano che lo spazio “postmoderno”, piuttosto che spazio di flussi, di circolazione, di scambio, si rivela essere lo spazio paradigmatico dell’esclusione, dell’isolamento e della segregazione. In questo spazio globale i muri, avamposti materiali delle retoriche securitarie, sezionano il mondo, trasformando i confini in laboratori biopolitici a cielo aperto, dove si opera la selezione tra chi passa e chi è respinto, selezione che equivale al diritto ad avere o meno accesso a condizioni di vita più o meno favorevoli.

Non va peraltro dimenticato che le odierne teicopolitiche sono soggette a un incremento costante della loro pericolosità. Infatti, esse non solo producono asimmetrie morali e politiche, ma sono collocate strategicamente in modo tale da aumentare la pericolosità della mobilità stessa. Il muro tra USA e Messico, ad esempio, non è solamente un dispositivo che blocca una massa in movimento e la filtra, ma è costruito in modo tale da incanalare e indirizzare il movimento dei migranti verso zone ad alto pericolo, come ad esempio verso i territori desertici dell’Arizona orientale e del Texas occidentale. In letteratura questo fenomeno è indicato come “funnel effect”: creare materialmente corridoi di passaggio o ad alto tasso di rischio, o dove si rivela più semplice catturare i migranti. La logica del “funnel effect” è evidente: permettere di investire economicamente nella costruzione di barriere fisiche in zone maggiormente attraversabili, lasciando sguarniti i confini di maggior interesse strategico. Lo scopo non dichiarato è quello di invitare i migranti a tentare di attraversarli solo e soltanto in quel punto. “Nel deserto messicano”, commenta Thomas Nail, “non ci sono recinzioni e sono quasi assenti controlli, ma non c’è nemmeno l’acqua” (Nail, 2016b, p. 173). Altra conseguenza del “funnel effect”: rende possibile la deresponsabilizzazione delle politiche dei muri perché individua nell’irresponsabilità dei migranti stessi la causa della loro morte. Solo uno sciocco s’incamminerebbe nel deserto, solo uno sprovveduto s’imbarcherebbe su un gommone…Dall’analisi finora condotta, la teicopolitica emerge come un complesso di logiche che non si esaurisce in un governo più o meno articolato dello spazio, ma sembra tendere verso una discreta, e per questo motivo ancor più pericolosa, necropolitica (Mbembe, 2003). A fronte di questa emergenza etica e politica, è necessario fornire degli argomenti di decostruzione critica delle politiche dei muri, e lo scopo di questo saggio è stato fin dall’inizio quello di fornire un quadro concettuale utile per preparare ulteriori analisi sul tema.

6. Conclusione: verso una società della paranoia?

Secondo Wendy Brown la nostra epoca è segnata non solo dall’esistenza dei muri, ma anche dal loro desiderio. I muri non sono solamente imposti dal potere statale, così come il potere non agisce solo attraverso il negativo e l’interdizione: se trovano un’accoglienza favorevole nell’opinione pubblica, o comunque una critica non certo radicale, è perché rispondono a un bisogno di protezione che ne sollecita e favorisce la costruzione. Brown propone un’interpretazione psicoanalitica di tale desiderio, per cui “il processo di creazione di difese psichiche alimenta la costruzione di difese materiali” (Brown, 2013, p. 133).

Il fatto che le teicopolitiche si siano affermate negli ultimi decenni come lo strumento per eccellenza di protezione dello spazio statale, ossia che la logica dei muri non appartenga più a una situazione emergenziale ma sia ormai diventata un paradigma dell’organizzazione politica dello spazio, suggerisce la possibilità di approfondire ulteriormente, in conclusione del nostro lavoro, questa analisi psicoanalitica. Di quale disagio le teicopolitiche sono il simbolo? Quale patologia dell’epoca contemporanea esse rilevano e rivelano?

Allo scadere del XIX secolo lo psichiatra Emil Kraepelin formulava la seguente definizione della paranoia: “un sistema delirante duraturo, immutabile, che suole svilupparsi molto lentamente accanto ad una totale conservazione della chiarezza e dell’ordine del pensiero, nel volere e nell’azione” (Kraepelin, 1982, p. 30). Kraepelin individuava così le caratteristiche distintive del tipo paranoico: lucido, freddo, calcolatore. Di rilievo ancora maggiore, Kraepelin sottolineava l’uso patologico da parte del paranoico dei processi argomentativi: il paranoico conserva un ordine assoluto del pensiero nonostante organizzi meticolosamente la propria esistenza, fin nei minimi dettagli, fondando il proprio agire su premesse non plausibili o palesemente false. Per questa ragione, la paranoia secondo Kraepelin è una forma di vita che accompagna, come un basso continuo, l’intera esistenza dell’individuo paranoico. Non è una forma patologica interrotta da momenti di lucidità, ma una forma di vita che esaurisce interamente l’esistenza del soggetto. La paranoia, conclude Kraepelin nella sua analisi, è una Verrücktheit, una follia sistematica.

È forse possibile e legittimo estendere questa nozione di paranoia alla società contemporanea? È possibile pensare che le modalità attraverso cui la vita politica dello spazio globale va costruendosi si basino su principi imprecisi, falsi, implausibili, e che dunque le strategie politiche utilizzate oggigiorno e meticolosamente perseguite siano essenzialmente paranoiche e, in un circolo vizioso, contribuiscano a produrre quel sentimento paranoico dal quale pretendono di liberare? In forma certo provvisoria e ripromettendo future analisi sul punto, riteniamo sia possibile affermare che le logiche teicopolitiche contemporanee, basandosi su principi legittimanti quali l’equiparazione tra migrazioni e pericolo, fondandosi sulla paura diffusa dell’altro, dello straniero, suggeriscono che l’avvenire della nostra società possa essere precisamente quello di una incontrollata e sistematica deriva paranoica.

Canetti in Massa e potere tracciava una piccola fenomenologia della paranoia politica: “il tipo paranoico del potente è colui che con ogni mezzo tiene lontano il pericolo dal proprio corpo. Egli cerca di sbarrare il passo al pericolo. Egli creerà intorno a sé uno spazio vuoto che potrà abbracciare con lo sguardo spiando attentamente ogni segno dell’avvicinarsi del pericolo” (Canetti, 1981, p. 279). I muri, in virtù sia della loro potente carica simbolica, sia degli effetti concreti che derivano dalla loro materialità, disegnano uno scenario pericolosamente affine a quello tratteggiato da Canetti. Essi, infatti, hanno come obiettivo dichiarato quello di allontanare un pericolo ignoto perché individuato in figure universali: il Migrante, lo Straniero, il Clandestino, sono le figure contemporaneo di una presunta pericolosità, la cuiintensità è interamente fondata sulla loro collocazione spaziale. I muri, radicalizzando questa differenziazione spaziale e trasformandola in differenziazione morale e politica, fomentano le logiche paranoiche che li nutrono.

Concludiamo riassumendo i risultati del saggio. Abbiamo visto come il paradigma teicopolitico, che trova la sua prima legittimazione filosofica in Aristotele, sia ormai diventato il modello fondamentale dell’organizzazione dello spazio statale. Di tale modello abbiamo ricostruito gli elementi simbolici che ne sostengono la legittimità politica, in particolare il suo rispondere a un bisogno di protezione. Tale risposta, tuttavia, è precisamente il rovescio dell’incapacità della sovranità statale di assolvere le sue funzioni, prima fra tutte la garanzia di sicurezza dei propri cittadini. Abbiamo quindi sottolineato i seri problemi etici che i muri sollevano, dal momento che, radicalizzando i tratti di pericolosità della figura del migrante, si trasformano in strumenti che, mentre pretendono di garantire la sicurezza dell’interno, consegnano l’esterno a un destino tragico e tagliano la possibilità di conoscere e interagire con l’esterno. Abbiamo concluso introducendo una futura linea di ricerca che individua nella paranoia il tratto psicologico fondamentale delle attuali teicopolitiche: i muri producono effetti altamente problematici a livello politico ed etico non solo perché non sono in grado di rispondere al bisogno di protezione dei soggetti, ma perché ingenerano sentimenti paranoici a livello globale che danno luogo a un gioco infinito di riflessi. È celebre la battuta del segretario di Stato degli USA, Janet Napolitano, per quale per ogni recinzione alta dieci metri c’è una scala di 11 metri. Ma la battuta potrebbe tranquillamente ribaltarsi: per ogni scala alta 11 metri, c’è una recinzione alta 12 metri. E così via, potenzialmente all’infinito.

Di fronte a una tale situazione, il compito politico che può essere affidato alla critica filosofica è quello di fornire gli argomenti per la decostruzione degli ordini di discorso che legittimano le odierne logiche teicopolitiche. Questo saggio, certo non conclusivo e anzi aperto a possibili sviluppi, rappresenta una cornice teorica entro la quale ci sembra possibile elaborare tali argomenti critici.

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1Il presente articolo è parte del progetto “CONICYT - Postdoctorado FONDECYT 2019 no. 3190167”.

2Per una mappa pur non esaustiva del pensiero postmoderno, cfr. Lyotard (1981), Vattimo (1985), Ohmae (1990), Badie (1996, 2000), Jameson (2007) e Bauman (2008).

3Sull’ideologia dell’assedio, che trasferisce il discorso della “insicurezza globale” in una semantica della “incolumità personale”, cfr. Bauman (2002, pp. 82-120).

4Sulla schiavitù nel pensiero aristotelico cfr. Berti (1997, p. 36) e Cambiano (2016, p. 160).

5Sulla complessità della dialettica spaziale prodotta dall’incontro con lo straniero (Fremde) ha scritto pagine fondamentali Georg Simmel: “Lo straniero ci è vicino in quanto sentiamo tra lui e noi eguaglianza di carattere nazionale e sociale, professionale o generalmente umana; ci è lontano in quanto queste uguaglianze vanno al di là di lui e di noi, e ci congiungono soltanto perché congiungono in generale moltissimi soggetti” (Simmel, 1989, p. 585; cfr. pp. 580-599).

6Sulla modernità come normalizzazione giuridica del conflitto politico, cfr. Schmitt (2011a, pp. 161-266).

7Sulla tesi del contemporaneo come tempo dell’ultramodernità, ossia del giustapporsi reattivo di istanze moderne e istanze postmoderne, cfr. Sferrazza Papa (2019, pp. 197-240).

8In diversi miti dell’antichità fa capolino l’immagine dell’eroe dotato di una pelle indistruttibile. Maggiore è l’inviolabilità dell’epidermide, maggiore sarà la gloria, giacché l’eroe dotato di una pelle invincibile è potenzialmente immortale. Eracle, dopo averlo strangolato a mani nude, scortica il leone di Nemea, mandato in missione omicida da Era, e fa della sua pelle un’armatura indistruttibile (cfr. Esiodo, Teogonia, v. 327). In un altro mito, narrato da Pindaro e da Esiodo, la perdita della pelle è la punizione per aver tentato di rivaleggiare in bravura con la divinità. Apollo, dopo aver vinto con un trucco una tenzone musicale con il sileno Marsia, lo appende a testa in giù e lo scortica vivo. Il tema generale cui questi miti fanno riferimento è la pelle come archetipo della protezione totale. Ma la contropartita dell’apparente invulnerabilità è sempre una vulnerabilità mortale: Ercole morirà avvelenato a causa di un trucco escogitato dal centauro Nesso. Si toglierà la pelle di leone per vestire l’abito donatogli da Deianira; l’invulnerabilità di Achille, dotato di una pelle indistruttibile grazie al bagno nelle acque dello Stige, non è totale, tant’è che una semplice freccia lo ucciderà colpendolo sul tallone, unico punto dove non era stato bagnato. Nemmeno nell’universo mitologico, insomma, una perfetta invulnerabilità è realmente possibile (cfr. Chamayou, 2014, pp. 64-65).

9Gli stessi muri domestici potrebbero essere analizzati attraverso questa lente d’ingrandimento antropologica: durante il sonno, quando siamo maggiormente vulnerabili, i muri ci offrono una protezione contro le insidie del fuori, dell’ignoto, dell’estraneo. Già Carl Schmitt, commentando il Leviatano di Hobbes, affermava che lo stato di natura, con la sua violenza improvvisa e la condizione di perpetua e reciproca belligeranza, si mantiene pur nello stato civile ogni volta che compiamo il gesto di chiudere la porta prima di coricarci. I muri sono il simbolo di questa impossibilità antropologica di liberarci dal senso di timore che proviamo nei confronti dell’ignoto, del mondo esterno, del contatto con l’altro.

Received: August 07, 2019; Accepted: December 16, 2019; Published: December 10, 2021

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