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Tópicos (México)

versión impresa ISSN 0188-6649

Tópicos (México)  no.43 México dic. 2012

 

Artículos

 

Filosofia pratica e phrónesis

 

Enrico Berti

 

Università degli studi di Padova enrico.berti@unipd.it

 

Recibido: 11-07-2011.
Aceptado: 08-11-2011.

 

Abstract

In his book Truth and Method, H.-G. Gadamer promoted the renaissance of Aristotle's practical philosophy. In his interpretation, however, practical philosophy tends to be identified with phónesis, i.e. with practical wisdom. For Aristotle practical philosophy is a scientific knowledge (epistéme), although less rigorous than theoretical philosophy, and uses demonstrations, though its demonstrations are valid in most cases, but not always. Practical philosophy, moreover, employs a dialectical method, consisting in the discussion of different opinions (phainómena) in the light of the most reputed premises (éndoxa). Phrdnesis, on the other hand, is a virtue, i.e. an excellence of reason, consisting in the capacity of good deliberation, i.e. of choosing the means which are the most apt to attain a right goal. Consequently, for Aristotle, the phrónimos (wise man) does not need to be a philosopher, whilst a philosopher, if he wants to attain the sophía (theoretical wisdom), must be a phrónimos.

Key words: Aristotle, Gadamer, scientific knowledge, virtue, method.

 

Resumen

En su libro Verdad y Método H.G. Gadamer fomentó el renacimiento de la filosofía práctica de Aristóteles. Sin embargo, de acuerdo a su interpretación, la filosofía práctica tiende a ser identificada con la phrónesis, i.e. con la sabiduría práctica. Para Aristóteles, la filosofía práctica es un conocimiento científico (epistéme), si bien es menos rigurosa que la filosofía teórica, y hace uso de demostraciones, aunque sus demostraciones no son siempre válidas, sino sólo en la mayoría de los casos. Además, la filosofía práctica emplea un método dialéctico que consiste en la discusión de diferentes opciones (phainómena) a la luz de las premisas más aceptadas (éndoxa). La phrónesis, por el contrario, es una virtud, i.e. una excelencia de la razón, que consiste en la capacidad de llevar a cabo una deliberación correcta, i.e. escoger los medios que resulten más aptos para alcanzar un fin adecuado. Consecuentemente, para Aristóteles el phrónimos (hombre sabio) no necesita ser filósofo pero, en cambio, el filósofo que desea alcanzar la sophía (la sabiduría técnica), debe ser un phrónimos.

Palabras clave: Aristóteles, Gadamer, conocimiento científico, virtud, método.

 

Una delle espressioni più significative dell'attualità della filosofia pratica di Aristotele è stata senza dubbio quella che i suoi critici hanno chiamato "riabilitazione"1 e i suoi estimatori hanno chiamato "rinascita della filosofia pratica"2. Essa ha avuto inizio con la pubblicazione di Verità e metodo di Hans Georg Gadamer (1960), che ha seguito di due anni quella di The Human Condition, ovvero Vita activa, di Hannah Arendt (1958), poiché nel libro di Gadamer era contenuto un capitolo intitolato "L'attualità ermeneutica di Aristotele". A dire il vero Gadamer aveva sostenuto la tesi contenuta in questo capitolo già nel saggio Praktisches Wissen, scritto nel 1930 per una Festschrift in onore di Paul Friedländer mai pubblicata e uscito solo nel V volumedei suoi Gesammelte Werke3. Ma anche se tale saggio fosse stato pubblicato subito, sicuramente non avrebbe prodotto l'effetto del capitolo citato di Verità e metodo, perché il successo di quest'ultimo è stato determinato dalla crisi di fiducia nelle scienze sociali, ritenute incapaci, a causa della loro "avalutatività", di orientare la prassi, crisi verificatasi intorno al 1968 e denunciata nel Positivismusstreit4. Questa crisi ha indotto infatti a vedere nella filosofia pratica di Aristotele - oltre che, sia pure in misura minore, in quella di Kant - la possibilità di un discorso razionale, quindi controllabile, condivisibile da tutti, e tuttavia anche pratico, cioè capace di formulare giudizi di valore e quindi di fornire criteri per l'agire.

Benché in Verità e metodo il richiamo alla filosofia pratica di Aristotele consideri questa solo come uno dei possibili modelli dell'ermeneutica (accanto alle "scienze dello spirito", alla retorica, all'estetica e all'ontologia linguistica), esso ha avuto una fortuna immensa nel decennio successivo, grazie anche ai contributi di Joachim Ritter e della sua scuola5, il che ha portato lo stesso Gadamer a sottolinearne l'importanza proprio nella raccolta dedicata alla "riabilita-zione"6 e poi nel cosiddetto secondo volume di Verità e metodo7.

Tuttavia tale "riabilitazione" è stata caratterizzata sin dall'inizio da un'ambiguità, voluta dallo stesso Gadamer, cioè dall'identificazione della filosofia pratica di Aristotele con quella che questo stesso filosofo chiamava phrónesis, cioè la virtù dianoetica della ragione pratica. Io ho denunciato tale ambiguità come una confusione in un convegno a Gallarate, al quale partecipò lo stesso Gadamer8, suscitando qualche benevola protesta da parte dell autore. In realtà si trattava non di una confusione, inconcepibile in un filologo come Gadamer, perché questi aveva ben chiara la distinzione tra le due forme di sapere, bensì di una identificazione voluta, consapevole, esplicita, come risulta dalle pagine di Verità e metodo sia nel primo che nel secondo volume, e come era già implicito nella nozione di praktisches Wissen, risalente al 1930.

Mi si consenta di riportare i passi di Verità e metodo in cui tale identificazione è presente. Anzitutto vale la pena di rileggere l'esordio del capitolo su "L'attualità ermeneutica di Aristotele":

A questo punto della nostra ricerca si introduce un gruppo di problemi che abbiamo già ripetutamente sfiorato. Se il problema ermeneutico si riassume in qualche modo nel fatto che il dato storico trasmesso deve essere compreso come sempre identico eppure anche sempre in modo diverso, si tratta qui, dal punto di vista logico, della questione del rapporto tra universale e particolare. La comprensione è allora un caso particolare di applicazione di qualcosa di universale a una situazione concreta e determinata. Acquista così uno speciale significato, per noi, l etica aristotelica, a cui abbiamo già accennato nelle considerazioni introduttive sulla teoria delle scienze dello spirito. Beninteso, in Aristotele non si tratta del problema ermeneutico e meno ancora delle sua dimensione storica, bensì della esatta valutazione della parte che ha la ragione nell agire etico. Ma ciò che ci interessa è appunto che qui si tratta di una ragione e di un sapere che non sono staccati da un essere divenuto, bensì sono determinati da questo essere e determinanti per lui9.

Nell'etica aristotelica dunque è contenuto un "sapere" coinvolto nell essere divenuto, cioè nella vita, nella prassi, determinante per questa e determinato da questa. Come si vede subito dopo, questo sapere corrisponde a ciò che Aristotele chiama "filosofia pratica" o anche "scienza politica". Scrive infatti Gadamer:

Il problema che si pone è di vedere come possa esservi un sapere filosofico dell'essere morale dell'uomo, e che funzione abbia, in tale essere morale, il sapere filosofico stesso. Se il bene si presenta all uomo sempre nella concretezza particolare delle singole situazioni nelle quali egli viene a trovarsi, il sapere filosofico dovrà appunto guardare alla situazione concreta riconoscendo, per così dire, ciò che essa esige da lui, o, in altre parole, colui che agisce deve vedere la situazione concreta alla luce di ciò che in generale si esige da lui. Ciò però, negativamente, significa che un sapere generale che non sa applicarsi alla situazione concreta rimane privo di senso, e anzi rischia di oscurare le esigenze concrete che nella situazione si fanno sentire10.

Qui l'autore parla di un "sapere filosofico", il quale ha per oggetto il bene, ma un bene che si presenta sempre solo nelle situazioni particolari. Ciò corrisponde perfettamente a quella che Aristotele, all'inizio dell'Etica Nicomachea, chiama "scienza politica" (epistéme politiké), la quale ha per oggetto il "bene umano" (tò anthrópinon agathón), che è essenzialmente il bene della polis (da cui la qualifica di "politica"), perché il bene del singolo, secondo Aristotele, è parte del bene della città, in quanto può realizzarsi solo all'interno di questa".11 Altrove lo stesso Aristotele chiama questa scienza "filosofia pratica"12, inaugurando tale espressione destinata a durare nei secoli almeno fino a Kant e resuscitata nel secolo XX dalla "rinascita" di cui sopra. Di questo bene, oggetto della filosofia pratica, Aristotele afferma che esso presenta "differenze" e "variazioni", nel senso che la stessa cosa, per esempio la forza o la ricchezza, in certe situazioni è un bene mentre in altre può essere causa di mali, per cui è impossibile trattarne con la stessa precisione (akríbeia) che è propria delle scienze matematiche, il cui oggetto è universale e immutabile. Nella filosofia pratica ci si dovrà accontentare di parlare del bene "approssimativamente e a grandilinee", usando argomentazioni le cui premesse valgono non sempre, ma "per lo più" (hòs epì tò polú), cioè nella maggior parte dei casi, e le cui conclusioni pertanto hanno lo stesso caratterei13.

Ma più avanti, nello stesso capitolo di Verità e metodo, Gadamer continua:

È chiaro che il sapere morale, così come Aristotele lo descrive, non è un sapere oggettivo, colui che sa non sta di fronte a uno stato di cose che si tratti di registrare obiettivamente, ma è immediatamente coinvolto e interessato a ciò che ha da conoscere. Si tratta di qualcosa che egli ha da fare. Che questo non sia il sapere della scienza è chiaro. In questo senso, la distinzione di Aristotele tra il sapere morale della phrónesis e il sapere teoretico dell epistéme è chiara, soprattutto se si tiene presente che per i Greci la scienza è pensata sul modello della matematica, cioè di un sapere dell immutabile, un sapere che si fonda su dimostrazioni e che perciò tutti possono apprendere [...]. In contrapposizione a questa scienza "teoretica", le scienze dello spirito si connettono strettamente al sapere morale. Sono delle "scienze morali". Il loro oggetto è l'uomo e ciò che sa di sé. Questi però si sa come un soggetto di azione, e il sapere che in tal modo ha di sé stesso non mira ad accertare ciò che è. Chi agisce ha invece da fare con cose che non sono sempre le stesse, ma possono essere anche diverse. In esse, egli scopre gli aspetti su cui ha da agire. Il suo sapere deve guidare la sua azione14.

In questo passo è chiara l'identificazione del sapere morale, prima ricondotto alla nozione aristotelica di "filosofia pratica", con quella che lo stesso Aristotele nell Etica Nicomachea chiama phrónesis e presenta come la virtù (areté), cioè l eccellenza, la perfezione, della ragione pratica, cioè la capacità di deliberare bene, ovvero di trovare i mezzi più efficaci, di individuare le azioni più idonee, a realizzare un fine che è il bene per sé stessi, per la propria famiglia e per la propria città15. Subito dopo, infatti, Gadamer rinvia all "analisi aristotelica della phrónesis" per ricavare i caratteri del sapere morale, o pratico, di cui sta parlando. Questi sono: 1) il fatto che, mentre un'arte (téchne) si impara e si può dimenticare, il sapere morale non si impara e, una volta acquisito, non si dimentica più; 2) il particolare modo di concepire il rapporto tra mezzi e fini, per cui questo sapere si orienta ora verso il fine ed ora verso i mezzi in vista del fine; 3) il fatto che il sapere morale comporta di per sé stesso un tipo di esperienza, per cui in esso non vale la distinzione tra esperienza e sapere che si fa opportunamente per la téchne; 4) il presupporre, da parte del sapere morale, un rapporto di amicizia che permette di dare dei consigli, per cui chi consiglia non è uno che giudica in maniera esterna e disinteressata, ma è unito all'altro da uno specifico legame, in base al quale è egli stesso coinvolto nella situazione che deve giudicarei16.

Tali caratteri corrispondono perfettamente alle caratteristiche della phrónesis delineate da Aristotele. La phrónesis infatti, 1) a differenza da altri abiti, cioè dalla téchne, non si può dimenticare!17; 2) consiste nella scelta dei mezzi più idonei a realizzare un fine buono, cioè dettato dalla virtù etica (perciò si distingue dell'astuzia, deinótes, che sceglie i mezzi più idonei a realizzare un fine qualsiasi)18; 3) non riguarda solo gli universali, ma deve conoscere anche i casi particolari, i quali sono oggetto di esperienza19; 4) infine la phrónesis ha come suo aspetto particolare la "comprensione" (sungnóme), la quale implica un "valutare" (gnóme) "insieme" (sun)20, cioè insieme con l'altro in un rapporto coinvolgente. È dunque con riferimento alla phrónesis che Gadamer può concludere il capitolo dichiarando:

Se riassumiamo ciò che dal punto di vista della nostra ricerca abbiamo ricavato dalla descrizione aristotelica del fenomeno etico e in particolare della virtù del sapere morale, possiamo dire che l analisi di Aristotele si presenta come una sorta di modello dei problemi che si pongono nel compito ermeneutico21.

Ciò che viene presentato come modello dell ermeneutica, come si può vedere, all'inizio era la filosofia pratica di Aristotele, mentre alla fine del capitolo è la phrónesis, con la quale la filosofia pratica viene senz'altro identificata. Questa identificazione tuttavia non corrisponde al pensiero di Aristotele, per il quale la filosofia pratica è una epistéme, cioè un abito della ragione teoretica, ancorché orientata alla prassi e dotata di un metodo particolarmente elastico, e come tale è professata dal filosofo, mentre la phrónesis non è una epistéme, ma è un abito eccellente, quindi una virtù, della ragione pratica, e come tale è praticata dal politico. Non a caso Aristotele come personificazione della phrónesis indica "Pericle e i suoi simili", cioè i politici che hanno fatto il bene della propria città22, mentre, quando discute sulla natura del bene come filosofo pratico, polemizza con Platone (amicus Plato)23 o con Socrate24, cioè con dei filosofi.

Lo statuto epistemologico della filosofia pratica risulta chiaramente dall inizio dell Etica Nicomachea, dove Aristotele, dopo avere ricordato che ogni azione umana, comprese le arti e le scienze, tende ad un fine, cioè ad un bene, e dopo avere mostrato che ci deve essere un fine ultimo, cioè un bene supremo, si domanda di quale tra le scienze (tinos tôn epistemôn) esso sia oggetto, e risponde che esso è l'oggetto della più autorevole e architettonica, cioè della "politica" (politiké), aggettivo che sottintende chiaramente il sostantivo epistéme, cioè scienza25. Egli poi prosegue dicendo che la scienza politica stabilisce di quali scienze c'è bisogno nelle città e si serve "delle altre scienze pratiche" (taîs loipaîs praktikaîs tôn epistemôn), il che suppone che essa stessa sia una scienza pratica. Come tale, la scienza politica è oggetto di una trattazione sistematica, che Aristotele chiama méthodos, precisando che si tratta di una trattazione che è anch'essa "politica" ed è costituita presumibilmente dalla stessa Etica Nicomachea e dal trattato intitolato appunto Politica, che dell'Etica è la continuazione26.

Essendo una scienza, cioè una "disposizione dimostrativa" (héxis apodeiktiké)27, la scienza politica dimostra, cioè fa uso di sillogismi dimostrativi, anche se le sue dimostrazioni non hanno la stessa precisione (tò akribés) delle dimostrazioni matematiche, perché il suo oggetto, cioè "le cose belle e giuste", ovvero "i beni", è caratterizzato da varietà e mutevolezza, perché uno stesso bene, per esempio la ricchezza o il coraggio, in certe situazioni può essere causa di rovina e quindi diventare un male. Essa dunque è in grado di "mostrare la verità" (talethés endeiknusthai), ma "in modo approssimativo e tipico" (pachulôs kaì túpoi), cioè - precisa Aristotele - partendo da premesse che valgono "per lo più" (hôs epì tò polù) e giungendo quindi a conclusioni che valgono anch'esse "per lo più"28. Ciò non le impedisce di essere un autentica scienza, perché per Aristotele la scienza è dimostrazione di ciò che è "necessario", come nel caso delle matematiche, o di ciò che è "per lo più", come nel caso della fisica29.

La filosofia pratica, o scienza politica, secondo Aristotele, ricerca che cos'è la felicità, la identifica con l'esercizio eccellente della funzione propria dell uomo, cioè con la virtù, descrive le varie virtù e insegna a praticarle, procedendo con metodo dialettico, cioè argomentando e confutando le opinioni degli altri filosofi, sulla base di éndoxa30. La phrónesis, invece, è l esercizio stesso della virtù, cioè il saper deliberare bene circa i mezzi più idonei a raggiungere la felicità propria, della propria famiglia o della propria città, e l'unico argomento di cui essa fa uso è il cosiddetto sillogismo pratico31.

Il metodo dialettico caratteristico della filosofia pratica è illustrato nel celebre passo che sta all'inizio del libro VII dell'Eitca Nicomachea, dove, accingendosi a trattare dell'akrasia, Aristotele scrive:

Si deve, come negli altri casi, dopo avere esposto i pareri (tithéntas tà phainómena) e avere anzitutto discusso le aporie (diaporésantas), mostrare in tal modo il più possibile tutti i giudizi condivisi (ta éndoxa) intorno a queste passioni, e se ciò non è possibile, almeno la maggior parte e i più importanti; se infatti si risolveranno le difficoltà e si preserveranno i giudizi condivisi, si sarà dimostrato in modo sufficiente32.

Traduco phainómena con "pareri", perché in questo passo, come ha mostrato Owen, il termine indica ciò che opinano gli uomini, ossia le opinioni (dóxai), e traduco éndoxa con "giudizi condivisi", ritenendo, a differenza da Owen, che i "pareri" e i "giudizi condivisi" siano cose molto diverse tra loro, poiché i "pareri" sono messi in discussione, cioè sono sottoposti a obiezioni e criticati, mentre i "giudizi condivisi" devono essere preservati, cioè non devono essere messi in discussione, ma devono essere considerati come dei criteri alla luce dei quali si giudicano i vari pareri. In fatto di etica quindi, cioè di filosofia pratica, il metodo consiste nel discutere i vari pareri alla luce degli éndoxa, rifiutando i pareri che vanno incontro a difficoltà insuperabili e contrastano con gli éndoxa, ed accettando invece quelli che si mostrano in grado di risolvere le difficoltà e di rispettare gli éndoxa, possibilmente tutti gli éndoxa, o almeno la maggior parte e i più autorevoli. Poiché gli éndoxa sono veri non sempre, ma solo "per lo più", l'etica, cioè la filosofia pratica, si accontenta di questo tipo di dimostrazioni, il cui carattere dialettico non ne esclude la scientificità, benché si tratti di una scientificità, per così dire, di secondo grado, quale è possibile appunto ad una scienza pratica33.

Il carattere assolutamente non scientifico della phrónesis risulta invece dalla trattazione specifica dedicata a questa virtù nel libro VI della Nicomachea, dove Aristotele, dopo avere definito la phrónesis come la capacità di deliberare su ciò che è buono ed utile per la vita buona in generale, precisa:

Ma nessuno delibera sulle cose che non possono stare diversamente, né sulle azioni che non possono essere compiute da lui stesso, cosicché, se è vero che la scienza è con dimostrazione e che delle cose i cui princìpi possono stare diversamente non cè dimostrazione (perché queste possono stare tutte diversamente), e che non è possibile deliberare intorno alle cose che sono necessariamente, la phrónesis non sarà né scienza né arte. Non sarà scienza, perché l' oggetto dell'azione può stare diversamente, e non sarà arte perché diverso è il genere dell azione e della produzione34.

L' identificazione delle due forme di sapere, compiuta da Gadamer, ha indubbiamente le sue radici in Heidegger, il quale, come ha mostrato Franco Volpi, nei suoi corsi universitari di Friburgo (1919-23) e Marburgo (1923-28), proponendosi di sviluppare il programma filosofico di una "ermeneutica della fatticità" e di una "analitica del Dasein", cioè di una comprensione filosofica della vita umana, decise di adottare Aristotele, in particolare l'Etica Nicomachea, come sua guida35. Quei corsi furono frequentati infatti da quasi tutti i futuri rappresentanti della "riabilitazione della filosofia pratica", cioè lo stesso Gadamer, ma anche Joachim Ritter, Hannah Arendt, Hans Jonas, Leo Strauss.

Ma tale identificazione, consapevole in Gadamer, si è trasformata in vera e propria confusione in altri autori filologicamente meno provveduti, contribuendo a generare - a mio avviso - il fenomeno chiamato in Germania philosophische Praxis e altrove philosophical counseling o "consulenza filosofica36. A questo fenomeno peraltro hanno contribuito anche gli studi condotti in Francia da Pierre Hadot sull'antica filosofia greca come "esercizio spirituale" ovvero come "modo di vivere"37. Lo straordinario successo di questa tendenza si spiega col fatto che essa consente a tutti di considerarsi, in qualche modo, filosofi, a condizione semplicemente di atteggiarsi a "saggi" (termine corrispondente al greco phrónimoi), cioè di "saper vivere", senza bisogno di studiare, di imparare, di leggere i libri dei filosofi, per confrontarsi con essi, discutere, eventualmente anche confutarli. La filosofia pratica in tal modo viene ridotta a semplice "arte di vivere", cioè ad una filosofia tutto sommato a buon mercato, simile a quella praticata nell'antichità da Diogene cinico.

Tuttavia la "riabilitazione" della filosofia pratica di Aristotele, perseguita da Gadamer sino agli ultimi anni della sua vita, come risulta dalla sua traduzione con commento del VI libro dell Etica Nicoma-chea38, ha condotto lo stesso Gadamer a una rivalutazione complessiva della filosofia di Aristotele, come risulta ad esempio dal seminario napoletano Metafisica e filosofia pratica in Aristotele39, la quale contribuisce con la più grande autorità a sottolineare la presenza di questo filosofo nella filosofia del Novecento, manifestatasi anche in autori quali Hans Jonas, Alasdair MacIntyre, Martha Nussbaum, Hilary Putnam e altri40.

Un problema che spesso si pone a proposito dei rapporti tra filosofia pratica e phrónesis, una volta stabilito che si tratta di due forme di sapere diverse, l'una "scientifica", nel senso aristotelico del termine, e l altra "virtuosa", ugualmente nel senso aristotelico, anche se entrambe "pratiche", cioè dirette ad orientare la prassi, è se il filosofo debba essere anche phrónimos. Sembra accertato, infatti, che il phrónimos, per Aristotele, non è tenuto ad essere anche filosofo - tale non fu, ad esempio, Pericle -, anche se al legislatore può essere utile conoscere le diverse costituzioni e distinguere quale è la migliore nelle diverse situazioni, il che può essere garantito, secondo Aristotele, da quella "filosofia concernente le cose umane" (he perì ta anthrópina philosophía) che non esiterei a identificare con la filosofia pratica41. Questo è il motivo per cui lo stesso Aristotele ha tenuto dei corsi e ha scritto dei trattati di "scienza politica", destinati probabilmente ai governanti, così come sembra avere scritto dei dialoghi Sul regno e Sulle colonie per il suo allievo Alessandro. La sua posizione resta tuttavia ben diversa da quella descritta da Platone nella Repubblica, per cui il governante deveessere anche filosofo: per Aristotele il filosofo sembra piuttosto avere la funzione di consigliare, o di istruire, il governante, o di scrivere trattati destinati al governante.

Meno chiaro è, invece, se il filosofo debba essere, come abbiamo già detto, lui stesso phrónimos. Qualche indicazione a questo proposito si può ricavare, a mio avviso, da due passi, contenuti rispettivamente nell Etica Nicomachea e nell Etica Eudemea e probabilmente tra loro paralleli, riguardanti entrambi il rapporto tra la phrónesis e la sophía, cioè tra le due virtù dianoetiche, o eccellenze della ragione, rispettivamente della ragione pratica e della ragione teoretica. Nel primo passo, che conclude il libro della Nicomachea dedicato alle virtù dianoetiche, Aristotele afferma che la phrónesis

non è signora della sophía né della parte migliore [della ragione, cioè quella teoretica], come nemmeno la medicina lo è della salute. Essa infatti non si serve di questa, ma vede in quale modo questa si possa generare. [La phrónesis] infatti dà ordini (epitàttei) in vista di quella [cioè della sophía], ma non a quella. Inoltre sarebbe la stessa cosa se uno dicesse che la [phrónesis] politica governa sugli dèi, per il fatto che dà ordini su tutto ciò che riguarda la città42.

Il fatto che la phrónesis dia ordini in vista della sophía, cioè comandi quali azioni si devono compiere e quali si devono evitare per conseguire la sophía, sembra voler dire che essa è necessaria alla sophía, cioè che non si può essere sophós senza essere phrónimos. È vero che, a rigore, la sophía sembra coincidere più con la filosofia teoretica che con la filosofia pratica, anzi con la prima tra le "filosofie teoretiche", cioè con la "filosofia prima", in quanto nello stesso libro essa è definita come scienza dei princìpi e in Metaph. A 2 come scienza delle cause prime. Ed è anche vero che, nel capitolo dedicato alla sophía, Aristotele porta come esempi di questa Talete e Anassagora, dicendo che secondo la gente essi sono "sapienti ma non saggi" (sophoùs mèn phrónimous d'où), perché conoscono cose straordinarie, meravigliose, difficili e sovrumane, ma inutili, e perché non indagano beni umani43. Questa tuttavia è l'opinione della gente (phasin), e non è detto che sia condivisa da Aristotele, anzi sembra proprio che Aristotele non la condivida, perché in risposta al noto aneddoto riportato da Platone nel Teeteto, secondo il quale Talete sarebbe stato deriso da una servetta tracia per il fatto di essere caduto in un pozzo mentre guardava le stelle44, egli riferisce nella Politica un altro aneddoto, secondo il quale Talete, avendo previsto - grazie ai suoi calcoli astronomici -un grande raccolto di olive, affittò tutti i frantoi disponibili a Mileto e a Chio a modico prezzo per poi noleggiarli a un prezzo molto più alto quando venne il momento del raccolto, e dimostrò in tal modo, grazie alla sua sophía, che i filosofi, se vogliono, possono anche arricchirsi, ma non è questo lo scopo per cui si affaticano45. In ogni caso il fatto di non indagare beni umani, per cui Talete e Anassagora, secondo la gente, non sarebbero stati phrónimoi, non vale per la filosofia pratica.

Più problemi pone il passo dell Etica Eudemea, famosissimo perché considerato da Jaeger un segno del carattere "teologizzante", e quindi giovanile, di quest opera, anche se poi esso è stato interpretato diversamente da altri studiosi. In questo passo Aristotele, dopo avere ugualmente ricordato che la medicina dà ordini in vista della salute, aggiunge:

il dio (ho theós) non governa dando ordini (epitaktikôs), ma è il fine in vista del quale la phrónesis dà ordini (epitáttei) [...], poiché quegli non ha bisogno di nulla. Pertanto quella scelta e quell acquisizione di beni naturali che più di tutte produrrà la theoria del dio, sia che si tratti di beni del corpo, o di ricchezze o di amici o di altri beni, questa sarà la scelta migliore e questo sarà il criterio più bello. Quella invece che per difetto o per eccesso impedisce di curare e di indagare il dio (ton theon therapeùein kaì theoreîn), questa è cattiva46.

Il passo ha dato luogo a interpretazioni opposte, a seconda che si sia visto in esso un riferimento al dio supremo del cosmo o al divino nell'uomo, cioè all'intelletto. Secondo me il criterio migliore per interpretarlo è di considerarlo parallelo al passo sopra citato della Nicomachea, perché entrambi trattano della phrónesis in quanto capace didare ordini. Il fine pertanto, in vista del quale la phrónesis dà ordini non può essere che la sophía, sia che questa venga intesa come esercizio dell'intelletto, sia che venga intesa come ricerca del dio, o indagine sul dio. In Metaph. A 2 infatti Aristotele dice che la scienza delle cause prime, cioè la sophía, è divina sia perché è posseduta dal dio, sia perché ha per oggetto il dio, il quale è "una delle cause e un qualche principio (tôn aitíon ... kaì arché tis)"47. Dunque praticare la sophía significa anche curarsi del dio e ricercare il dio, nel senso teoretico, cioè conoscitivo del termine. Naturalmente in questo contesto il termine theoría e il verbo theorein non significano "contemplazione" e "contemplare", come spesso si crede, perché la contemplazione di Dio è un concetto cristiano, introdotto dagli ordini monastici dediti alla vita contemplativa. In Aristotele theorein significa indagare, ricercare, studiare, come è provato dal celebre esordio del libro Gamma della Metafisica: "c'è una qualche scienza che studia (theoreî) l ente in quanto ente e le cose che gli appartengono di per sé stesso". Di conseguenza la vita teoretica (theoretikòs bíos) non ha nulla a che fare con la vita contemplativa in senso religioso, ma è la vita dello studioso, dello scienziato, la vita che lo stesso Aristotele ha cercato di vivere anche se non sempre, per circostanze politiche, ciò gli è stato possibile.

Poiché il primo passo è contenuto in uno dei libri comuni alle due Etiche, il suo parallelismo col secondo passo dimostra che i libri comuni dovevano appartenere originariamente alla Nicomachea, altrimenti l''Eudemea ripeterebbe due volte la stessa cosa. Ma, a parte questa considerazione, che interessa solo gli studiosi di filologia, resta il fatto che la phrónesis per Aristotele ha la funzione di orientare la prassi anche in vista dell'esercizio della sophía, cioè della vita teoretica, che per lui costituisce la felicità. È del tutto inverosimile quindi che il filosofo pratico possa fare a meno della phrónesis, se compito della filosofia pratica è precisamente determinare in che consista il bene supremo dell uomo, cioè la sua felicità. Il passo dell Etica Eudemea è interessante perché mostra che la vita teoretica è degna di lode anche da un punto di vista che potremmo definire religioso, o comunque riguardante gli dèi, senza tuttavia implicare una concezione antropomorfica del dio - che in greco è sempre il nome di una specie e perciò va scritto con l' iniziale minuscola, come "l' uomo" -, ossia senza implicare la concezione di un dio che dà ordini come un padrone ai suoiservi. Esso mostra inoltre che il merito di tale lode spetta precisamente alla phrónesis, in quanto essa è la virtù che spinge alla vita teoretica.

 

Notas

1 Cfr. M. Riedel [Hrsg.], Rehabilitierung der praktischen Philosophie, 2 voll., Freiburg i. B. 1972-1974.         [ Links ]

2 Cfr. F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in C. Pacchiani [a cura], Filosofia pratica e scienza politica, Abano 1980, pp. 11-97.         [ Links ]

3 H.-G. Gadamer, Praktisches Wissen, in Id., Gesammelte Werke, Bd. 5, Tübingen 1985, pp. 130-148.         [ Links ]

4 Cfr. H. Maus u. F. Fürstenberg [Hrsgg.], Der Positivismusstreit in der deutschen Soziologie, Neuwied-Berlin 1969, trad. it. col titolo Dialettica e positivismo in sociologia, Torino 1972.         [ Links ]

5 Cfr. J. Ritter, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a. M. 1969, trad. it. a cura di G. Cunico, Casale Monferrato 1983;         [ Links ] G. Bien, Die Grundlegung der politischen Philosophie bei Aristoteles, Freiburg/München 1973, trad. it. La filosofia politica di Aristotele, Bologna 1985.         [ Links ]

6 H.-G. Gadamer, Hermeneutik als praktische Philosophie, in Riedel, op. cit., I, pp. 325-334.

7 H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode - Ergänzungen, Tübingen 1985, trad. a cura di R. Dottori, Milano 1995.         [ Links ]

8 E. Berti, Saggezza e filosofia pratica, in Aa. Vv., Imperativo e saggezza, Genova 1990, pp. 35-47.         [ Links ]

9 H.-G. Gadamer, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano 1972, p. 363 (corsivo nel testo).         [ Links ]

10 Ivi, p. 364.

11 Aristotele, Etica Nicomachea I 1,1094 a 25-b 5.

12 Aristotele, Metafisica II 1, 993 b 20-21.

13 Eth. Nic. 11,1094 b 12-28.

14 Gadamer, Verità e metodo, pp. 365-366.

15 Aristotele, Eth. Nic. VI 5,1140 a 24-b 11.

16 Gadamer, Verità e metodo, pp. 368-375.

17 Eth. Nic. VI 5,1140 b 29-30.

18 Ivi 13,1144 a 6-8.

19 Ivi 8,1141 b 15-18.

20 Ivi 11,1143 a 19-23.

21 Gadamer, Verità e metodo, p. 376.

22 Eth.Nic. VI 5,1140 b 8-11.

23 Ivi I 4,1096 a 11-16.

24 Ivi VII 3,1145 b 24.

25 Ivi 1 1,1094 a 1-27.

26 Ivi, 1091094 b 1-12.

27 Ivi VI 3,1139 b 31.

28 Ivi I 1,1094 b 12-22.

29 An. Post. I 30.

30 Ivi VII 1,1145 b 2-7.

31 Ivi VI 8,1141 b 18-22.

32 Ivi VII 1,1145 b 3-7.

33 Mi riferisco all'articolo celeberrimo di G.E.L. Owen, "Tithénai tà phainó-mena", in Id., Logic, Science and Dialectic. Collected Papers in Greek Philosophy, ed. by M. C. Nussbaum, Ithaca (NY) 1986, pp. 239-251.         [ Links ] Ho espresso alcune critiche ad esso nei miei articoli Il valore epistemologico degli éndoxa secondo Aristotele, in E. Berti, Nuovi studi aristotelici, I, Epistemologia, logica e dialettica, Brescia 2004, pp. 317-332,         [ Links ] e ""Phainómena" ed "éndoxa" in Aristotele", in W. Lapini, L. Malusa, L. Mauro (a cura), Gli Antichi e noi. Scritti in onore di Antonio Mario Battegazzore, Genova 2009, pp. 107-119.         [ Links ]

34 Eth. Nic. VII 5,1140 a 31-b 6.

35 F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Padova 1984, nuova edizione Roma-Bari 2010.         [ Links ]

36 Cfr. G. Achenbach, Philosophische Praxis, Köln1987, trad. it. col titolo La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Milano 2004.         [ Links ] A questo proposito mi permetto di rinviare al mio saggio Pratiche filosofiche e filosofia pratica, in E. Berti, Nuovi studi aristotelici, vol. IV/2, Brescia 2010.         [ Links ]

37 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Paris 1981, trad. it. a cura di A. I. Davidson, Torino 2005;         [ Links ] Id., Qu'est-ce que la philosophie antique, Paris 1995, trad. it. Torino 1998.         [ Links ]

38 Aristoteles, Nikomachische Ethik, hrsg. u. iibersetzt von H.-G. Gadamer, Frankfurt a. M. 1998.         [ Links ]

39 H.-G. Gadamer, Metafisica e filosofia pratica in Aristotele, lezioni raccolte da V. De Cesare, Milano 2000.         [ Links ]

40 Sul tema mi permetto di rinviare, oltre che al già citato vol. IV/2 dei miei Nuovi studi aristotelici, anche alla seconda edizione del mio Aristotele nel Novecento, Roma-Bari 2008.

41 Eth. Nic. X10, 1181 b 12-16.

42 Ivi VI 13,1145 a 6-11.

43 Ivi VI 7,1141 b 3-7.

44 Plat. Theaet. 174 ab. 45Aristot. Pol. 1 11, 1259 a 6-19.

45 Aristot. Pol.I 11, 1259 a 6-19

46 Eth. Eud. VIII 3,1249 b 13-21. Conservo il testo dei manoscritti, rifiutando le correzioni di theós in theion o noùs, proposte da vari editori.

47 Metaph. A 2, 983 a 8-10.

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