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Boletín mexicano de derecho comparado

versión On-line ISSN 2448-4873versión impresa ISSN 0041-8633

Bol. Mex. Der. Comp. vol.53 no.158 Ciudad de México may./ago. 2020  Epub 14-Ene-2022

https://doi.org/10.22201/iij.24484873e.2020.158.15637 

Artículos

L’anima lavoristica della costituzione della Repubblica italiana

El alma laboral de la constitución de la Republica italiana *

Ciro Milione** 
http://orcid.org/0000-0002-0470-7498

Santo Napoli*** 

**Profesor titular de Derecho Constitucional. Universidad de Córdoba, España, Facultad de Derecho y Ciencias Económicas y Empresariales; responsable del Grupo de Investigación PAIDI SEJ-372, Democracia, Pluralismo y Ciudadanía. Correo: ciromilione@uco.es.

*** Doctorando en Derecho Constitucional de la Universidad de Córdoba, Facultad de Derecho y Ciencias Económicas y Empresariales, España. Correo: santo.napoli@uco.es.


Riassunto

La Costituzione italiana rappresenta un unicum dal punto di vista degli ordinamenti passati e vigenti, giacché è la sola a porre a suo fondamento il concetto di “lavoro”. Tale nozione, nell’ottica della Carta, assurge a diritto, dovere e principio di natura costituzionale. Va sottolineato che la relazione di impiego che soggiace a questa stessa nozione è quella che le norme civilistiche definiscono come subordinata. L’intenzione del Costituente era quella di conciliare la subordinazione del lavoratore con la libertà del cittadino. Per questo, la Costituzione introduce dei “contrappesi” volti a tutelare quegli individui che, sprovvisti di mezzi di produzione, per vivere dignitosamente sono vincolati al potere direttivo di un datore di lavoro. Sebbene molte disposizioni costituzionali non siano state pienamente attuate, la Costituzione ha comunque assolto la funzione di migliorare le condizioni dei lavoratori italiani. La globalizzazione e le cicliche recessioni del mercato internazionale hanno messo in crisi l’anima lavoristica della Costituzione, esigendo il sacrificio di numerose garanzie. Nonostante oggi si registrino alcune timide migliorie dei livelli occupazionali, è difficile sperare in una restaurazione completa di quelle stesse tutele di cui hanno goduto generazioni passate di lavoratori italiani.

Parole chiave: lavoro; Costituzione; principio; Italia; sciopero

Resumen

La Constitución italiana representa un unicum desde el punto de vista de la normativa pasada y actual, ya que es la única que pone el concepto de “trabajo” a su fundamento. Esta noción, desde el punto de vista de la Carta, se convierte en un derecho, un deber y un principio constitucional. Cabe destacar que la relación laboral que subyace a este mismo concepto es la que el derecho civil define como subordinada. La intención del Constituyente era conciliar la subordinación del trabajador con la libertad del ciudadano. Por esta razón, la Constitución introduce “contrapesos” destinados a proteger a los individuos que, sin medios de producción, para vivir dignamente están vinculados al poder de gestión de un empleador. Aunque muchas disposiciones constitucionales no se han aplicado plenamente, la Costituzione ha cumplido con su función de mejorar las condiciones de los trabajadores subordinados. La globalización y las recesiones cíclicas del mercado internacional han puesto en crisis el espíritu laborista de la Costituzione, lo que ha exigido el sacrificio de numerosas garantías. Aunque hoy en día hay algunas tímidas mejoras en los niveles de empleo, es difícil esperar un restablecimiento completo de las mismas salvaguardias de las que han disfrutado generaciones pasadas de trabajadores italianos.

Palabras clave: trabajo; Constitución; principio; Italia; huelga

Sommario: I. Premessa. Il lavoro come fondamento costituzionale della Repubblica italiana. II. Il diritto al lavoro: un principio costituzionale, una libertà ma anche un dovere fondamentale. III. Il lavoro come un bene da proteggere. La tutela del lavoro nelle previsioni dell’articolo 35 della Costituzione. IV. Il diritto ad una giusta ed equa retribuzione: orientamenti dottrinali prevalenti intorno all’articolo 36 della Costituzione. V. La tutela del lavoro femminile nelle previsioni del primo comma dell’articolo 37 della Costituzione. VI. La tutela del lavoro minorile alla luce del secondo comma dell’articolo 37 della Costituzione. VII. Il diritto all’assistenza ed alla previdenza del lavoratore ex articolo 38 della Costituzione. VIII. La libertà sindacale nelle previsioni dal primo comma dell’articolo 39 della Costituzione. IX. La contrattazione collettiva prevista dal quarto comma dell’articolo 39 della Costituzione e le nuove forme di contrattazione previste nell’ordinamento giuridico italiano. X. Il diritto di sciopero nelle previsioni dell’articolo 40 della Costituzione. XI. Conclusioni: la portata assiologica dell’articolo 1 della Costituzione, la realtà attuale e le sfide del futuro. XII. Bibliografia.

I. Premessa. Il lavoro come fondamento costituzionale della Repubblica italiana

La tutela del diritto al lavoro e delle persone lavoratrici costituisce in Italia un tema di estrema attualità. Ció si deve in parte alle continue e repentine modifiche legislative che sono state introdotte nel corso degli ultimi anni con lo scopo di favorire l’occupazione e di semplificare il mercato del lavoro. Purtroppo tali iniziative si sono, quasi sempre, risolte per gli stessi lavoratori in una limitazione di diritti e in una perdita di alcune garanzie che sembravano indelebilmente radicate nell’ordinamento, tali da essere considerate nella coscienza collettiva pressoché intangibili.

Anche alla luce di tale situazione di precarietà normativa, la fonte primaria e più certa di tutela in materia lavoristica va ancora oggi rinvenuta nei principi e nei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana, che -nonostante la provocatoria proposta di qualche estroso politico di “ritoccarne” il contenuto eliminandone il riferimento- riconosce nell’articolo 1 un ruolo di assoluta preminenza al lavoro tanto da farne addirittura il fondamento della Repubblica (Giugni 1994, 3 e ss.).

La formula utilizzata dai padri costituenti non si riduce ad una semplice espressione di stile con un carattere meramente definitorio. Il principio lavorista enunciato nel primo comma dell’articolo 1 de la Costituzione, non dev’essere interpretanto in senso riduttivo, come un mero principio dogmatico -un valore supremo come altri- tutelato a livello costituzionale. Esso, piuttosto evoca una nozione più ampia di quella astratta che sembrerebbe emergere dal dato letterale, in quanto si propone di evidenziare il ruolo essenziale ed infungibile che deve essere riconosciuto alla libera determinazione di ogni soggetto, quale strumento di affermazione della personalità (Mortati 1972, 141 e ss.). L’essenza del fondamento “lavorista” della Costituzione va, quindi, ricercata nella volontà di promuovere e rendere effettiva, attraverso la tutela del lavoro, la realizzazione della libertà e della dignità della persona, nonché la partecipazione di ogni cittadino al soddisfacimento dei bisogni della collettività, con la propria opera ed il proprio contributo.

Come emerge dai lavori dell’Assemblea Costituente, fu questa l’idea ispiratrice che indusse i padri fondatori ad attribuire al lavoro un’importanza così preminente nel modello di società prefigurata dall’articolo 1 della Costituzione.1 Per tali ragioni, è possibile affermare che il principio lavorista implica anche quello partecipativo: tutti, con il proprio lavoro, devono essere posti in condizione di partecipare e di concorrere allo sviluppo economico ed alla crescita sociale del Paese.

Come vedremo a continuazione, il perseguimento di tale obiettivo resta affidato allo Stato, su cui grava il compito di creare le condizioni atte a favorire la piena occupazione.2

II. Il diritto al lavoro: un principio costituzionale, una libertà ma anche un dovere fondamentale

L’inserimento del diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Costituzione è formalmente sancito dal primo comma dell’articolo 4 della Costituzione, secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Le previsioni contenute nella norma avrebbero come specifico punto di riferimento il lavoro subordinato e sarebbero funzionali allo scopo di configurare un principio di tutela privilegiata per tale categoria di lavoratori anche in considerazione della posizione di debolezza nella quale, tradizionalmente, questi si trovano nei confronti del datore (Baldassarre 1989, 15).

Si è anche sostenuto che la nozione di lavoro cui allude tale primo comma comprenda, più genericamente, ogni attività relativa alla produzione e allo scambio di beni e servizi (Mazziotti di Celso 1956, 60), per cui il diritto al lavoro riguarderebbe sia l’attività di lavoro subordinato, sia l’attività di lavoro autonomo.

In base ad un’interpretazione ancora più estensiva, la nozione di lavoro utilizzata dai padri costituenti avrebbe invece portata universale, nel senso che andrebbe riferita ad ogni attività umana economicamente rilevante, includendo tutte “le diverse forme della ‘vita activa’ (il lavoro subordinato, il lavoro autonomo, il lavoro imprenditoriale, eccetera)”, mediante le quali “si realizza quella saldatura tra realizzazione individuale e riconoscibilità sociale su cui si gioca la capacità di progresso di una comunità” (Nania 2009, 68). Per tali ragioni, resterebbero escluse dalle previsioni di tale precetto il non-lavoro, il parassitismo sociale, la rendita improduttiva, così come la mera speculazione finanziaria (Di Gaspare 2008, 876 e 877).

Per quanto concerne, invece, l’effettiva portata della norma, la dottrina (Crisafulli 1952, 153) è stata concorde nel ritenere che il primo comma dell’articolo 4 della Costituzione abbia carattere meramente programmatico, in quanto di fatto non riconosce un diritto soggettivo perfetto, immediatamente azionabile per il conseguimento o la conservazione di un posto di lavoro, ma assume solo una finalità politico-sociale, consistente nel favorire le condizioni generali che dovrebbero permettere ad ogni cittadino di accedere al mondo del lavoro.

In tal senso, il diritto al lavoro è stato ricondotto, in modo pressoché unanime, nella categoria dei diritti sociali, quindi nell’ambito di quei diritti fondamentali costituzionalizzati (Paladin 1991, 663) che impongono all’apparato statale la realizzazione di una serie di prestazioni positive. Si è affermato, pertanto, che dalla norma deriva un dovere di attivazione rivolto ai poteri pubblici, un dovere la cui essenza consisterebbe nella massima promozione dell’occupazione. In tal senso, il precetto costituzionale si tradurrebbe in una pretesa a che vengano create dallo Stato le condizioni per cui ogni cittadino possa svolgere un’attività lavorativa (Sirchia 1963, 524).

Prescindendo da elencazioni meramente esemplificative, va evidenziato che la tutela costituzionale del diritto al lavoro si è andata concretizzando con forme assai mutevoli nel corso degli anni. La crisi occupazionale, anche recentemente, ha reso sempre più necessario un adattamento dei rimedi giuridici, che si sono sempre più evoluti nel senso di una maggiore “flessibilità” delle relazioni lavorali, mediante l’adozione di strumenti intesi a garantire una maggiore efficienza del mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti in cerca di una prima occupazione. Di conseguenza, si è assistito, da un lato, ad un progressivo svuotamento del ruolo e delle funzioni del sistema del collocamento pubblico, dall’altro, ad una sempre maggiore valorizzazione dell’attività di mediazione privata con l’istituzione di imprese preposte all’attività di collocamento. Nella stessa direzione si pongono le linee di intervento volte a liberalizzare il mercato del lavoro, tra le quali rientra senz’altro quella relativa all’introduzione di ulteriori elementi di flessibilità, attraverso l’ampliamento della possibilità di ricorrere a forme contrattuali diverse dal contratto a tempo pieno ed indeterminato. Tale finalità è stata perseguita sia attraverso l’introduzione di nuovi tipi di contratto di lavoro flessibile (lavoro intermittente, lavoro ripartito, lavoro occasionale, contratto di inserimento), sia attraverso modifiche normative tese ad agevolare e promuovere il ricorso a forme contrattuali già previste, quali il lavoro temporaneo, il contratto parttime e l’apprendistato.

Il diritto al lavoro è stato configurato anche come un diritto di libertà, in particolare la Consulta ha ritenuto che l’articolo 4, comma 1, sancisce il riconoscimento della piena libertà di scelta di un’attività lavorativa o di una professione da parte del lavoratore (Baldassarre 1989, 15) e, al contempo, il dovere dello Stato di astenersi da qualsiasi ingerenza nella scelta e nelle modalità di svolgimento.3 Non si tratta pertanto di un diritto assoluto ed incondizionato, poiché la sua attuazione rientra sempre e comunque nella piena discrezionalità del Legislatore, al quale è riservata la facoltà di regolarne l’esercizio, anche con l’uso di poteri di controllo, e di imporre restrizioni a tutela di interessi pubblici e di valori primari, quali, ad esempio, l’ambiente, la salute dei cittadini, l’istruzione, eccetera.4

Per quanto concerne poi, nello specifico, le garanzie previste in caso di licenziamento, va osservato che la corrente di pensiero, in origine minoritaria, volta a rinvenire nell’articolo 4, primo comma, il fondamento di una disciplina limitativa dei licenziamenti illegittimi o arbitrari (Smuraglia 1958, 143) ha finito per prevalere nel momento in cui la Consulta si è pronunciata sulla legittimità dell’articolo 2118 del Codice Civile (CC) con la sentenza del 9 giugno de 1965, n. 45.5 Altra parte della dottrina, invece, ha continuato a leggere l’assunto della Consulta in chiave di strumentalità del diritto al lavoro rispetto all’obiettivo del pieno impiego (Pera 1965, 86) . È stato affermato che dall’articolo 4 della Costituzione non discenda un vero e proprio diritto soggettivo del lavoratore alla conservazione del posto,6 ma solo la necessità per il legislatore di approntare una disciplina che consenta al datore di lavoro di recedere dal rapporto solo in presenza di validi e giustificati motivi, e non per una mera scelta arbitraria (Nogler 2007, 16-18).

Infine, va ancora osservato che la dottrina più tradizionale si è orientata nel senso di riconoscere carattere di piena giuridicità al dovere di lavorare (articolo 4, comma 2 della Costituzione), basti pensare, per esempio, al diritto al mantenimento dei figli maggiorenni da parte dei genitori (Cavino 2018, 11-13). Non va trascurato che avendo ogni cittadino il dovere di lavorare secondo scelta e possibilità, scemi l’imposizione di obblighi specifici.

Va tuttavia ricordato che la relazione fra doverosità e libertà bilanciata dalla normativa costituzionale può essere alterata in casi particolari ovvero essere declinata in forme diverse in relazione a situazioni speciali. Ad esempio, una determinata mansione potrebbe essere imposta dalla deliberazione dello stato di guerra, oppure il legislatore potrebbe istituire un obbligo di lavoro anche in relazione a situazioni che si presentano speciali, nel quadro dei normali rapporti tra autorità e libertà. Quest’ultimo è il caso del lavoro dei detenuti, la cui attività all’interno degli istituti di detenzione per adulti può consistere nello svolgimento di compiti strumentali al funzionamento delle carceri o alla produzione di beni e/o servizi ulteriori, imposta con finalità rieducativa.

Ulteriore ipotesi di lavoro obbligatorio è quella riguardante le prestazioni di pubblica utilità, cioè quelle prestazioni non retribuite che sostituiscono le pene detentive, come previsto dal secondo comma dell’articolo 54 del Decreto Legislativo (DL) 28 agosto 2000, n. 274 che dispone “Il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni né superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività” (Cavino 2018, 16).

La difficoltà di rinvenire una specifica disciplina repressiva ha invece indotto altri autori ed escludere che la disposizione del secondo comma dell’articolo 4 della Costituzione possa assumere valore prettamente giuridico (Abbamonte 1954, 102 e 103). In ogni caso, l’esame dell’articolo 4 costituzionale nel suo complesso lascia intravedere una vera e propria simmetria tra il primo e il secondo comma, più che una contrapposizione. In un caso come nell’altro, la norma ha come unico centro di imputazione sempre il cittadino che, pur essendo titolare del diritto a un lavoro, in attesa di poterlo rendere effettivo, non deve porsi in una posizione di mera aspettativa, ma ha il dovere di attivarsi e di svolgere comunque un’attività socialmente utile nei limiti delle sue concrete possibilità.

III. Il lavoro come un bene da proteggere. La tutela del lavoro nelle previsioni dell’articolo 35 della Costituzione

Le previsioni dell’articolo 4 della Costituzione trovano diretta ed immediata applicazione nel successivo articolo 35, che introduce il Titolo terzo della Costituzione dedicato ai c.d. “Rapporti economici”, stabilendo che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”.

Sebbene tale disposizione rappresenti una sorta di completamento concretizzazione dell’articolo 4 della Costituzione, in quanto volta a fissare mezzi e direttive a garanzia dell’effettività del diritto al lavoro (Mortati 1972, 237), la Corte Costituzionale nelle proprie decisioni ha ritenuto, pressoché unanimemente, che tale precetto non riconosce situazioni giuridiche soggettive immediatamente tutelabili. In particolare, secondo un orientamento ormai pacifico della Corte, l’articolo 35 della Costituzione, collocato in apertura del titolo III, “non vuole determinare i modi e le forme di tutela del lavoro, ma solo enunciare il criterio ispiratore comune alle disposizioni stesse, nelle quali ultime esclusivamente sono poi da ritrovare le specificazioni degli oggetti della tutela voluta accordare”.7 Tutt’al più l’articolo 35 della Costituzione può assumere rilievo quale “parametro di supporto, affiancato da altri e spesso in posizione di sostanziale subordinazione” (Cirillo 2009, 166).

Muovendo da tale principio, la stessa Corte Costituzionale ha affermato che el articolo 35 Costituzionale presuppone un’attuazione della tutela da parte del legislatore ordinario, attraverso un’attività di normazione che resta connotata da un carattere di discrezionalità,8 giacchè compete a tale organo político la scelta e la tipizzazione delle forme di lavoro da tutelare.

La discrezionalità alla quale ci riferiamo ha suscitato una serie di problemi in quanto ai suoi stessi limiti, particolarmente in relazione a certe disposizioni di legge che non consentono di qualificare come “lavoro subordinato” quei rapporti che invece ne abbiano e la natura e le caratteristiche (Montuschi 1993, 21-23). È stato sostenuto che i principi costituzionali sanciti negli articoli 35-40 della Costituzione non sono riferibili esclusivamente al lavoro subordinato (Santoro Passarelli 2009, 50) e che, pertanto, non sarebbe immaginabile che la Consulta abbia voluto imporre una siffatta preclusione al legislatore. Pertanto, va riconosciuta a quest’ultimo la facoltà di affermare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, ridimensionandone eventualmente il regime di tutela, o, nello stesso tempo, di negarla, stabilendo specifiche garanzie per i lavoratori, senza che da ciò possano scaturire implicazioni di carattere giuridico (Scognamiglio 2001, 118-120). Del resto, la dottrina prevalente è stata concorde nell’affermare che la tutela accordata dal primo comma dell’articolo 35 della Costituzione, si collega con una dimensione economica del lavoro, intesa come attività umana idonea alla produzione di ricchezza (Treu 1975b, 5). Sicché, sebbene la norma esprima un principio di generale favore per il lavoro subordinato in relazione al quale maggiormente si manifestano le esigenze di tutela, la sua ampia formulazione deve far ritenere che la stessa ricomprenda anche altre forme di lavoro, ivi incluse le attività lavorative autonome e, quindi, i lavoratori parasubordinati, i lavoratori in cooperazione, gli autonomi, gli artigiani, i lavoratori a domicilio, le libere professioni, il lavoro prestato nell’impresa familiare, eccetera.

IV. Il diritto ad una giusta ed equa retribuzione: orientamenti dottrinali prevalenti intorno all’articolo 36 della Costituzione

Il primo comma dell’articolo 36 della Costituzione stabilisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, facendo assurgere la retribuzione, da mero elemento accessorio del sinallagma contrattuale (come era configurata dall’articolo 2099 del CC, già nel 1942), al rango di diritto costituzionalmente garantito, con una valenza non solo economica ma anche e soprattutto di carattere sociale.

La norma costituzionale, infatti, pur qualificando la retribuzione come corrispettivo da parametrare alla quantità e alla qualità della prestazione lavorativa, àncora l’istituto ad un concetto di sufficienza volto alla realizzazione della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali. In effetti, tale obbligazione si configura, oltre che come elemento necessario al soddisfacimento dei bisogni essenziali di vita del lavoratore e della sua famiglia, quale strumento di elevazione personale, sociale e culturale dello stesso.

La concezione costituzionale della retribuzione esula pertanto da un dimensione meramente scambistica tra le parti del rapporto e pone al centro della propria tutela la libertà e la dignità del lavoratore, non tanto e non solo come collaboratore dell’imprenditore, bensì quale persona e quale appartenente alla collettività statuale (Natoli 1955, 68 e 69).

Il rapporto esistente tra i criteri della proporzionalità e della sufficienza caratterizzanti l’istituto della retribuzione come delineato dall’articolo 36 della Costituzione ha dato origine a diverse, e molto spesso contrapposte, tendenze interpretative. Secondo l’orientamento prevalente i due elementi della proporzionalità e della sufficienza devono essere considerati autonomi e distinti l’uno dall’altro, per cui sotto il profilo giuridico bisognerebbe distinguere tra retribuzione intesa come obbligazione-corrispettivo (richiamata dal principio della proporzionalità), e la retribuzione quale obbligazione-sociale (aderente a quello della sufficienza) (Zoppoli 1994, 91 e 92).

L’indirizzo più recente in dottrina propende invece per una nozione unitaria di giusta retribuzione che comprende entrambi i requisiti della proporzionalità e della sufficienza che “operano in maniera congiunta, contestuale e simultanea, cosicché la giusta retribuzione ex articolo 36 non può non essere quella che contemporaneamente e in ogni caso soddisfi entrambi i requisiti” (Bellomo 2002, 79).

Va evidenziato, per altro verso, che la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, a far data dalla risalente sentenza della Corte di Cassazione, sezione lavoro (da ora Cass. civ., sez. lav.) 21 febbraio 1952, n. 461 sono oggi concordi nell’affermare che il primo comma dell’articolo 36 della Costituzione è una norma immediatamente precettiva, dotata di generale imperatività e, pertanto, incondizionatamente applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato anche in mancanza di uno specifico intervento del legislatore ordinario in materia di minimi contrattuali (Pugliatti 1949, 187). Ciò contrariamente a quanto sostenuto dai fautori della tesi della natura programmatica e, dunque, della non diretta applicabilità della norma costituzionale, secondo i quali, invece, il diritto alla giusta retribuzione avrebbe potuto attuarsi solo con un intervento legislativo statale vincolante anche le parti collettive (Napoletano 1951, 217 e 218).

In quanto immediatamente precettiva, la disposizione costituzionale in commento e i principi da essa fissati assumono carattere inderogabile, nel senso che attribuiscono al lavoratore il diritto a vedersi riconosciuta ope iudicis la giusta retribuzione. In tal modo, il giudice può essere chiamato a determinare l’importo della retribuzione qualora essa non corrisponda ai parametri di adeguatezza sanciti dal precetto costituzionale. L’intervento giudiziale è stato in origine giustificato facendo riferimento all’articolo 2099 del CC, laddove tale Codice stabilisce che, in mancanza di norme imputabili a contratti collettivi o ad accordi individuali tra le parti, la retribuzione è determinata in via giudiziale. Tuttavia, va notato che, più recentemente, il richiamo a detta norma è andato sempre più scemando sulla base della considerazione che, nella quasi totalità dei casi, il decidente non si trova dinnanzi alla mancata determinazione contrattuale della retribuzione, bensì ad una determinazione inadeguata (Treu 1968, 160-162).

Per quanto concerne, invece, il parametro da assumere dal giudice quale riferimento per la verifica della congruità del trattamento retributivo, si è ritenuto pressoché unanimemente che l’elemento più attendibile sia costituito dal contratto collettivo, in applicazione di un consolidato orientamento giurisprudenziale risalente agli anni cinquanta.9

Per quanto riguarda il contenuto e l’ambito oggettivo di operatività dell’articolo 36 della Costituzione, va comunque precisato che la garanzia apprestata dalla norma costituzionale riguarda esclusivamente il trattamento fondamentale o “il minimo costituzionale”, ovverosia il quantum strettamente corrispondente ai connotati della proporzionalità e della sufficienza, con esclusione di ogni indennità o emolumento, nonché di ogni altro trattamento accessorio comunque riconducibile al rapporto sinallagmatico di lavoro che non rientri nella retribuzione minima.10 Inoltre, si è costantemente affermato in giurisprudenza che dal primo comma dell’articolo 36 della Costituzione non può desumersi un principio generale di parità di trattamento nei rapporti di lavoro, poiché tale norma fissa il criterio della proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione con esclusivo riferimento al singolo rapporto di lavoro ed a prescindere perciò da ogni comparazione intersoggettiva e intercategoriale.11

V. La tutela del lavoro femminile nelle previsioni del primo comma dell’articolo 37 della Costiotuzione

La Costituzione italiana tutela il lavoro femminile. Il primo comma dell’articolo 37 della Costoituzione stabilisce a tal scopo che “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

La formulazione della norma è il risultato del compromesso raggiunto in seno all’Assemblea Costituente, fra due opposti orientamenti volti a valorizzare, da una parte l’uguaglianza giuridica delle lavoratrici e dall’altra la funzione familiare e materna che la tradizione riservava specialmente alle donne alla fine degli anni quaranta (Ballestrero 1979, 109-123). Nel primo trentennio successivo all’entrata in vigore del citato precetto è prevalsa, sul piano normativo, una certa continuità con la legislazione protettiva. Per tanto, nel rapporto tra parità e tutela è stato dato rilievo a tale secondo aspetto, sulla base della convinzione che il lavoro femminile fosse innanzitutto bisognoso di una tutela specifica, volta a preservare il ruolo che i costumi sociali avevano riservato alla donna come moglie e come madre (Treu 1968, 158).

Una rivalutazione dell’obiettivo egualitario posto dalla prima parte del primo comma dell’articolo 37 della Costituzione emerge soltanto con la Legge (L.) 9 dicembre 1977, n. 903, “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” (c.d. “Legge sulla parità”). Tale legge fu emanata con una finalità di promozione e di attuazione della parità sostanziale tra uomo e donna, tanto da configurare come una mera eccezione la disciplina protettiva che aveva caratterizzato l’attività normativa previgente. È da interpretare in questo senso, per esempio, la previsione contenuta nell’articolo 1, comma 4, della citata legge che, stabilendo che nessun lavoro può essere inibito alle donne, ha poi previsto una potenziale eccezione a tale principio, attribuendo alla contrattazione collettiva la possibilità di vietare che le donne siano adibite a “mansioni particolarmente pesanti”.12 Un altro caso di eccezionale deroga alla parità era contenuto nell’articolo 5, là dove si contemplava la possibilità di rimuovere o limitare attraverso la contrattazione collettiva, il divieto per le aziende manifatturiere di adibire le donne al lavoro notturno.13

Anche in questo caso il principio espresso dalla prima parte del primo comma dell’articolo 37 della Costituzione ha una portata immediatamente precettiva ed è fonte di diritti soggettivi immediatamente azionabili. Gli effetti di tale norma si applicano non soltanto rispetto ai singoli contratti individuali di lavoro, ma anche nei confronti di quei contratti collettivi che contengano clausole contrastanti con il precetto costituzionale. Per ultimo, la giurisprudenza di legittimità,14 ancor prima della L. 9 dicembre 1977, n. 903, ha consentito di superare il dibattito sul significato da attribuirsi all’espressione “parità di lavoro”, chiarendo che deve essere intesa come parità di qualifica e di mansioni e non come parità di rendimento (Ballestrero 1990).

Come segnato precedentemente, la ratio alla base del primo comma dell’articolo 37 della Costituzione è stata quella di promuovere delle condizioni di lavoro che permettessero alla donna di adempiere alla funzione familiare, ed assicurare alla madre ed al bambino un’adeguata protezione. Nonostante ciò, la Costituzione stessa indirizza il Legislatore a rimuovere degli ostacoli, di origine sociale e di radice tradizionale, che impediscono un pieno e paritario inserimento della donna nel mercato del lavoro. Una prima e fondamentale attuazione di tale mandato costituzionale si riscontra nella L. 30 dicembre 1971, n. 1204, “Tutela delle lavoratrici madri”, successivamente integrata dagli articoli 5, 6, 7 e 8 della già citata L. 9 dicembre 1977, n. 903 (Treu 1968, 167-172). Il quadro legislativo di attuazione dell’articolo 37 della Costituzione è progressivamente mutato non solo a seguito della “Legge sulla parità”, ma soprattutto per effetto dei ripetuti interventi in materia da parte della Corte Costituzionale e del recepimento da parte dello Stato italiano di importanti direttive comunitarie, tra cui vale la pena segnalare la Direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, “concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento”, e la Direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996, “concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES”.

Conseguentemente, l’oggetto della tutela si è ben presto spostato dalla protezione della madre, alla tutela della famiglia e soprattutto dell’interesse del minore ad un’adeguata assistenza da parte di entrambi i genitori,15 con una ridefinizione dei ruoli e delle responsabilità familiari in un’ottica unitaria ed un ampliamento della sfera dei diritti riconosciuti al padre lavoratore. L’impianto della disciplina è fondamentalmente mutato con l’attuazione della normativa comunitaria contenuta nella citata Direttiva 96/34/CE.16 I principi contenuti dalla direttiva sui congedi parentali hanno trovato attuazione nella L. 8 marzo 2000, n. 53, “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, che ha riconosciuto, per la prima volta, la titolarità diretta in capo al padre dei diritti di paternità. Ció ha consentito così di superare l’originario limite della fruizione subordinata alla titolarità in capo alla madre e in alternativa a quest’ultima, secondo l’orientamento fino a quel momento prospettato dalla stessa Consulta.17 In attuazione della delega contenuta nell’articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53, è stato successivamente emanato il DL 26 marzo 2001, n. 151, che, attraverso l’introduzione e la disciplina di importanti istituti, ha delineato una nuova regolamentazione sull’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro dei genitori, volta a favorire l’affermazione di condizioni di sostanziale parità tra lavoratori e lavoratrici nell’adozione delle proprie scelte personali e professionali. Il percorso evolutivo della tutela della genitorialità è proseguito con la L. 28 giugno 2012, n. 92, “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”; con il DL 15 giugno 2015, n. 80, “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”; e con la L. 22 maggio 2017, n. 81, “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, con la quale è stata ridisegnata la disciplina del lavoro agile allo scopo di “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

VI. La tutela del lavoro minorile alla luce del secondo comma dell’articolo 37 della Costituzione

L’articolo 37 della Costituzione detta importanti principi di tutela anche in materia di lavoro minorile, ispirati dalla necessità, più volte emersa durante i lavori dell’Assemblea Costituente, di garantire una tutela differenziata per il lavoro dei minori rispetto a quello femminile e di introdurre una parità di trattamento retributivo rispetto ai lavoratori adulti.18 La norma costituzionale demanda innanzitutto al legislatore ordinario il compito di determinare “…il limite minimo di età per il lavoro salariato” (comma 2), stabilendo una riserva di legge chiaramente funzionale allo scopo di conciliare l’ingresso dei minori nel mondo del lavoro con le esigenze di tutela della loro integrità psico-fisica e della loro formazione culturale. Al secondo comma dell’articolo 37 della Costituzione è stata data specifica attuazione con la L. 17 ottobre 1967, n. 977, “Tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti” che, nonostante le successive modificazioni,19 è ancora oggi in vigore.

Con la tale legge, per la prima volta, il Legislatore ha affrontato la tematica della tutela del lavoro minorile separatamente rispetto a quello femminile, abbandonando il principio di assimilazione giuridica dei minori alle donne. Di fatto, l’articolo 1 di tale legge determina che il proprio ambito di applicazione riguarda i minori di anni diciotto titolari di un contratto o di un rapporto di lavoro. Questo stesso precetto introduce una distinzione fondamentale tra due categorie di minori: il bambino, definito come “il minore che non ha ancora compiuto 15 anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico”, e l’adolescente cioè “il minore di età compresa tra i 15 e i 18 anni di età e che non è più soggetto all’obbligo scolastico”. L’articolo 3 fissa l’età minima per l’ammissione al lavoro, facendola coincidere con il “momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria”, con l’ulteriore precisazione che “comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti”. La scelta di far coincidere l’età minima di accesso al lavoro con l’assolvimento dell’obbligo di istruzione deve esser interpretata come una sorta di adeguamento automatico --per relationem- della predetta normativa rispetto a quanto sancito dal legislatore in materia di obbligo scolastico e formativo (Garofalo 2002, 39-43). In tal senso, l’assolvimento di quest’ultimo obbligo avrebbe effetto anche sull’acquisizione da parte del minore dell’idoneità ad essere titolare di un rapporto di lavoro (la c.d. “capacità giuridica speciale”). Nonostante abbia avuto una portata indiscutibilmente innovativa, la L. 17 ottobre 1967, n. 977, è stata comunque oggetto di non poche critiche, tanto da essere giudicata non sufficientemente in grado di dare attuazione al dettato costituzionale,20 nella misura in cui trascura o non valorizza adeguatamente l’obiettivo di un’efficace formazione professionale (Treu 1975c, 37).

Un altro importante aspetto che riguarda la tutela del lavoro minorile attiene sicuramente alla capacità di agire, cioè a dire alla capacità di stipulare il contratto di lavoro e di esercitare tutti i diritti e le azioni che ne conseguono. Tale materia è attualmente regolata dalla L. 8 marzo 1975, n. 39, “Attribuzione della maggiore eta’ ai cittadini che hanno compiuto il diciottesimo anno e modificazione di altre norme relative alla capacita’ di agire e al diritto di elettorato”, che però nulla dispone in merito alla capacità del minore di stipulare autonomamente un contratto di lavoro. Tale lacuna normativa ha portato una parte della dottrina a ritenere che il minore di 18 anni non abbia la capacità di stipulare un contratto di lavoro, ma solo quella secondaria di esercitare i diritti e le azioni che da esso derivano. Pertanto, per il perfezionamento di tale negozio giuridico, si ritiene che debba essere necessariamente sostituito dal proprio rappresentante legale (Suppiej 1982, 206-208) e, nello specifico, dai genitori o dal tutore che, ai sensi di quanto previsto dagli articoli 320 e 357 CC lo rappresentano in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni (Smuraglia 1967, 212-216). Ad avviso di una diversa scuola di pensiero (De Cristofaro 1979, 359-370), invece, la circostanza per cui la L. 8 marzo 1975, n. 39, non contenga un esplicito riferimento alla capacità del minore di stipulare il contratto di lavoro, costituirebbe espressione della volontà del legislatore di realizzare una piena coincidenza tra capacità giuridica speciale (ossia, l’idoneità ad essere titolare di un rapporto di lavoro) e capacità di agire del lavoratore minorenne. Ciò appare in perfetta sintonia con la logica sottesa alla legislazione in materia che, con l’apposizione di limiti di età per l’accesso al lavoro, ha inteso valorizzare l’autonomia e la dignità dei soggetti, non residuando conseguentemente alcun margine per l’intervento dei genitori nella stipulazione del contratto (Mazzotta 2019, 322 e 323). Altri autori, tuttavia, richiamandosi alla regolamentazione fissata per il lavoro marittimo ed aereo, hanno avanzato una tesi intermedia tra le due soluzioni contrapposte sopra evidenziate, sostenendo che debba essere comunque salvaguardata la libertà del minore di scegliere l’occupazione preferita (Miscione 2002, 23).

Per ultimo, bisogna ricordare che il terzo comma dell’articolo 37 della Costituzione sancisce il diritto dei minori alla parità di retribuzione a parità di lavoro rispetto agli altri lavoratori. Sicché in caso di assegnazione di una stessa qualifica e di analoghe mansioni da svolgere, la parità di trattamento retributivo tra il minore e il lavoratore maggiorenne deve realizzarsi in concreto, “indipendentemente dalla valutazione del rispettivo rendimento” (Treu 1980, 453).

VII. Il diritto all’assistenza ed alla previdenza del lavoratore ex articolo 38 della Costituzione

La Costituzione fissa importanti principi a garanzia dei lavoratori anche nel caso in cui, per cause indipendenti dalla loro volontà, si trovino nell’impossibilità, temporanea o definitiva, di prestare attività lavorative con conseguente privazione della retribuzione. In tal senso, il secondo comma dell’articolo 38 della Costituzione prevede che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Accanto alla superiore tutela a carattere previdenziale riferita ai soli lavoratori, lo stesso articolo, al comma 1, in una prospettiva meramente assistenziale, stabilisce che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Sulla portata della norma sono insorte vivaci dispute teoriche sfociate in due principali correnti di pensiero.

Secondo la prima l’articolo 38 della Costituzione avrebbe segnato il passaggio da un modello mutualisticoassicurativo, proprio della previdenza corporativa, ad un sistema monistico ispirato al principio di sicurezza sociale ed al principio di solidarietà generale (articolo 2 della Costituzione) in virtù del quale sarebbe compito dello Stato garantire condizioni di vita dignitose per ogni cittadino ed il libero sviluppo della sua personalità.21

Secondo una diversa lettura interpretativa, i primi due commi del precetto anteriormente citato riguarderebbero due distinte componenti del sistema di sicurezza sociale, aventi diversa natura: da una parte “l’assistenza” che è una forma di intervento rivolto a tutta la collettività, dall’altra “la previdenza” che, al contrario, si pone in stretta correlazione con il lavoro e costituisce uno strumento di tutela per l’individuo che, involontariamente, si trovi nell’impossibilità di svolgere la propria attività lavorativa e quindi di provvedere a sé e alla sua famiglia.22

Inoltre, mentre nel primo caso l’articolo 38 della Costituzione si preoccupa di assicurare a tutti i cittadini il minimo esistenziale per vivere con prestazioni uniformi e di pura sussistenza finanziate dall’intera collettività; nel secondo, il precetto viene a garantire non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari essenziali, bensì i mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori sovvenzionati dagli stessi interessati, con il concorso dei datori di lavoro, attraverso i contributi assicurativi versati durante l’attività lavorativa e l’intervento integrativo dello Stato.

Il secondo comma dell’articolo 38 della Costituzione contiene una serie di mandati che vengono in considerazione per il loro valore giuridicamente imperativo e per la loro natura immediatamente operativa nel nostro ordinamento. In tal senso, la Costituzione attribuisce valore di principio fondamentale al diritto dei lavoratori a che “siano previsti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”. Come la stessa Consulta ha segnalato, i diritti sociali previdenziali assolvono una funzione di tutela e di garanzia delle necessità di vita del lavoratore e della sua famiglia,23 qualora si verifichino eventi specifici idonei ad incidere sulla sua capacità lavorativa e sulla possibilità di produrre reddito. A sottolineare l’importanza di questi principi è stata anche la Corte di Cassazione, segnalando che di tali prestazioni possono fruire anche i lavoratori stranieri extracomunitari adibiti ad attività lavorativa, ed anche coloro che risultino privi di permesso di soggiorno, e ciò su presupposto che il lavoro, anche da un punto di vista previdenziale, è degno di tutela in tutte le sue forme e applicazioni.24

Un’altra fondamentale questione interpretativa attiene alla categoria degli accadimenti ai quali deve riconnettersi la tutela apprestata dalla norma, essendosi contrapposte a tal proposito due diverse linee interpretative. La prima ritiene che l’elenco riportato dal secondo comma dell’articolo 38 della Costituzione sarebbe meramente esemplificativo (Persiani 2012, passim); l’altra, basandosi sui lavori della Costituente, riterrebbe l’elenco tassativo e non ampliabile (Andreoni 1986, 726). Vale la pena sottolineare che, in alcune occasioni, il Legislatore ha riformato o abrogato prestazioni previdenziali precedentemente riconosciute, senza incorrere in vizi di legittimità costituzionale. È il caso, per esempio, della pensione di anzianità abrogata con la c.d. “Riforma Fornero-Monti” (L. 22 dicembre 2011, n. 214, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l’equita’ e il consolidamento dei conti pubblici”) per essere sostituita dalla pensione anticipata, riconosciuta al lavoratore sulla base della contribuzione maturata al raggiungimento di un requisito anagrafico più favorevole di quello stabilito per la pensione di vecchiaia.

Per quanto concerne, invece, la misura delle prestazioni, la giurisprudenza costituzionale ha consolidato il principio interpretativo in virtù del quale l’articolo 38 della Costituzione non suppone una necessaria corrispondenza tra tali prestazioni ed i contributi versati dal lavoratore.25 Inoltre, la stessa Corte Costituzionale ha stabilito che detta norma viene ad assorbire, per alcuni profili, sia l’articolo 35 della Costituzione che l’articolo 36 della Costituzione, che esprimono un criterio generale di adeguatezza e di sufficienza della retribuzione in genere.26 Come previsto dal quarto comma dell’articolo 38 della Costituzione, il compito di realizzare le finalità perseguite dalla norma spetta ad “organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. In attuazione di tale principio, il sistema previdenziale italiano è imperniato su una articolata organizzazione costituita da Enti pubblici (tra i quali l’INPS e l’INAIL) e da Istituti di previdenza privata a iscrizione obbligatoria (quali a titolo esemplificativo, le casse di previdenza dei liberi professionisti).

VIII. La libertà sindacale nelle previsioni dal primo comma dell’articolo 39 della Costituzione

La Costituzione italiana sancisce il diritto dei lavoratori all’autotutela in forma collettiva dei propri interessi professionali, stabilendo al primo comma dell’articolo 39 della Costituzione che l’organizzazione sindacale deve essere libera.

Secondo quanto affermato in dottrina, tale libertà assume, per un verso, un contenuto positivo in quanto attribuisce ai lavoratori la possibilità di organizzarsi costituendo anche più sindacati per la medesima categoria professionale (c.d. “pluralismo sindacale”) (Santoro Passarelli 2007, 28 e 29) e di scegliere in base alle proprie preferenze quello a cui associarsi. Ma al contempo, questa stessa libertà presenta anche una connotazione negativa che trova esplicazione nella facoltà di decidere di non aderire ad alcuna organizzazione sindacale (Treu 1975a, 205).

Oltre alla libertà di associarsi e/o di organizzarsi, la libertà sindacale ricomprende, come ulteriore fondamentale corollario, anche la libertà di agire sindacalmente, ovverosia la prerogativa per i sindacati di operare in modo autonomo, senza poter essere assoggettati a condizionamenti datoriali, né tanto meno ad ingerenze da parte dello Stato, sia per quel che attiene la loro organizzazione interna, quanto per la loro attività esterna. A tal proposito, si è ritenuto (Prosperetti 1971, 15) che la libertà sindacale assume il carattere non già di libertà politica, bensì di libertà civile, nel senso che i soggetti privati vi rivendicano e vi esercitano una sfera di autonomia rispetto alla quale lo Stato deve astenersi, consentendo l’autoregolamentazione degli interessi nel quadro dell’ordinamento.

Sotto altro profilo, va ancora evidenziato che per una parte della dottrina, la libertà sindacale andrebbe ricondotta alla libertà di associazione prevista dall’articolo 18 della Costituzione (Barile 1966, 212).

Secondo altro orientamento (Flammia 1963, 7-10), invece, la fattispecie sindacale differisce dal fenomeno meramente associativo e può realizzarsi attraverso qualsiasi forma di organizzazione purché idonea a perseguire e a rendere effettiva l’autotutela degli interessi collettivi dei lavoratori.

Un corollario ulteriore della libertà di organizzazione sindacale è dato dalla possibilità di stabilire il tipo di interessi collettivi da tutelare e, quindi, la categoria professionale da organizzare sindacalmente. Le più recenti teorizzazioni tendono a riconoscere efficacia anche ad accordi stipulati, ad esempio, da rappresentanze sindacali anche quando non esista un conferimento esplicito di poteri rappresentativi o quando sia addirittura difficile rinvenire negli statuti sindacali regole precise sulla competenza negoziale. Ciò sarebbe possibile ritenendo che il potere contrattuale del sindacato discenda direttamente dal primo comma dell’articolo 39 della Costituzione e che, pertanto, abbia origine normativa, nel senso che si tratterebbe di un potere assegnato iure proprio all’organizzazione (Ferraro 1981, 278-411 passim).

IX. La contrattazione collettiva prevista dal quarto comma dell’articolo 39 della Costituzione e le nuove forme di contrattazione previste nell’ordinamento giuridico italiano

Il quarto comma dell’articolo 39 della Costituzione stabilisce che i sindacati registrati hanno la possibilità di stipulare contratti di lavoro erga omens, in relazione alla categoria di lavoratori presa a riferimento. La forma tipica, e in qualche modo privilegiata, di disciplina dei rapporti di lavoro è costituita dal c.d. “contratto collettivo di diritto comune” (Bortone e Curzio 1984, 48).

In quanto espressione di autonomia negoziale, i contratti collettivi di diritto comune non hanno efficacia erga omnes, ma sono applicabili esclusivamente agli iscritti alle associazioni stipulanti, in virtù del mandato a contrarre in proprio nome conferito al momento dell’iscrizione.

Tuttavia, la Corte di Cassazione è concorde nel ritenere che il contratto collettivo sia vincolante anche per i soggetti non iscritti ad alcuna organizzazione sindacale che abbiano fatto esplicita adesione alle pattuizioni contrattuali (obbligandosi pattiziamente ad applicare il contratto collettivo, anche se non affiliati all’associazione stipulante) o che li abbiano recepiti implicitamente attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti.27

Sul punto va ricordato che, secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale,28 il trattamento economico previsto dal “contratto collettino nazionale di lavoro” (CCNL) di settore costituisce l’unico valido parametro ai fini della determinazione della giusta ed equa retribuzione ex articolo 36 della Costituzione (vd. supra). Sulla base di tale presupposto si è ritenuto di poter riconoscere ai contratti collettivi efficacia applicativa generalizzata, quanto meno per quanto attiene alla parte economica.

Il contratto collettivo riveste innanzitutto una funzione normativa (Giugni 1988, 7 e 8). Oltre che della parte normativa, avente a riferimento la regolazione del rapporto con il lavoratore, il contratto collettivo si compone anche di una parte c.d. obbligatoria. In essa si trovano le pattuizioni destinate ad instaurare vincoli e pretese in capo ai soggetti collettivi, tra cui rientrano, ad esempio, le clausole di rinvio tra diversi livelli contrattuali, le disposizioni sulle procedure di conciliazione e di arbitrato, quelle in materia di informazione o di consultazione (Persiani 1972, 1989).

In ogni caso, va segnalato che non sono passibili di modifiche peggiorative le previsioni contrattuali che attengono ai “c.d. diritti quesiti”, ovvero a quei diritti che sono già entrati a far parte del patrimonio individuale del lavoratore, per i quali opera un principio di assoluta intangibilità.29

Un ulteriore limite alla facoltà di deroga in peius riguarda le condizioni di miglior favore derivanti dai “c.d. usi aziendali”, cioè a dire da quei comportamenti reiterati e prolungati adottati, per prassi generalizzata, spontaneamente dal datore di lavoro, quando essi determinino un trattamento più favorevole per i lavoratori rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva.30

Oltre che su scala nazionale, l’attività di contrattazione collettiva si svolge su base territoriale, attraverso la stipula di contratti collettivi a livello aziendale. Sempre sotto il profilo soggettivo, nonostante i pronunciamenti non univoci e le decisioni di senso contrario,31 negli anni è prevalso in giurisprudenza l’orientamento secondo cui i contratti aziendali assumono efficacia erga omnes, risultando vincolanti per tutti i dipendenti del complesso aziendale, compresi quelli non iscritti ai sindacati firmatari, con l’unico limite rappresentato dalla non applicabilità ai lavoratori espressamente dissenzienti.32

Per quanto attiene, invece, alla problematica dei rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, è interessante indicare che tale materia ha conosciuto un’importante evoluzione dottrinale. A fronte di un indirizzo ormai remoto e propenso per la tesi dell’inderogabilità in peius del contratto nazionale da parte di quello aziendale (Santoro Passarelli 1961, 253 e 254), a partire dagli anni ottanta si sono via via affermate scuole di pensiero più aperte, tra cui una delle più autorevoli è quella del Ferraro, che hanno ritenuto ammissibile la deroga peggiorativa, a condizione che l’accordo aziendale successivo sia stato stipulato da organizzazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative e solo se lo stesso venga a garantire la facoltà di impugnativa dei singoli lavoratori (Ferraro 1981, 361-375).

Un aspetto di novità in materia è stato introdotto dall’articolo 8 del Decreto Legge (DL) 13 agosto 2011, n. 13833 relativo alla disciplina della “c.d. contrattazione collettiva di prossimità” e della contrattazione aziendale, con cui è stata prevista la possibilità di stipulare contratti collettivi di lavoro a livello aziendale o territoriale.

La Corte Costituzionale è stata la prima ad essere chiamata a pronunciarsi in ordine alle nuove disposizioni.

Investita del problema, infatti, la Corte Costituzionale, con sentenza 4 ottobre 2012, n. 221, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del primo, secondo e secondo comma bis dell’articolo 8 del citato DL 13 agosto 2011, n. 138, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente (la Regione Toscana) la realizzazione di specifiche intese a livello aziendale e/o territoriale che possono operare in deroga alle leggi statali e regionali nonché ai contratti collettivi nazionali, non può considerarsi lesivo delle norme costituzionali che demarcano la competenza fra Stato e regioni.34

Sotto altro non meno rilevante profilo, risulta ormai pacificamente acclarata l’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte di quello individuale di lavoro (Bortone e Curzio 1984, 81-84). Tale impossibilità di deroga in peius è stata sancita sulla base delle previsioni dell’articolo 2077 del CC, in modo che la comparazione fra il trattamento dell’accordo individuale e di quello risultante dai contratti collettivi deve avere luogo sulla base di parametri oggettivi e non di valutazioni soggettive, e deve essere sempre finalizzato a garantire al lavoratore l’applicazione del trattamento a lui più favorevole.35

Queste stesse regole valgono per ciò che riguarda i rapporti tra legge e contratto collettivo, in quanto anche le situazioni di conflitto tra queste due fonti sono regolamentate dal principio della prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore. Sicché, pur non potendosi mettere in discussione il primato della norma parlamentaria, in caso di conflitto tra norma imperativa di legge e norma collettiva deve essere la prima a prevalere, a meno che la deroga collettiva non sia più favorevole per il lavoratore.36

Va comunque notato che, a causa del recente recessivo dell’economía, si è sempre più andata diffondendo una diversa disciplina dei rapporti tra legge e contratto collettivo. Così è avvenuto per effetto della c.d. “legislazione dell’emergenza” di cui al secondo comma dell’articolo 8 del DL 13 agosto 2011, n. 138, norma che ha concesso ai sindacati veri e propri poteri di deroga in peius a norme, considerate fino ad allora, inderogabili.37 Si tratta infatti di materie che riguardano l’organizzazione del lavoro e la produzione, le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento del personale, i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime nella solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro, la disciplina dell’orario di lavoro, le modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro, la trasformazione e conversione dei rapporti di lavoro, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, etc. Si tratta, dunque, di materie che rappresentano certamente una parte non indifferente di quanto previsto, normalmente, dal comune dispiegarsi delle relazioni industriali fra datori e lavoratori.

X. Il diritto di sciopero nelle previsioni dell’articolo 40 della Costituzione

Oltre alla libertà sindacale, un altro fondamentale strumento di autotutela degli interessi dei lavoratori è costituito dallo sciopero sancito come diritto dall’articolo 40 della Costituzione, norma che permette il suo esercizio “nell’ambito delle leggi che lo regolano”.

Per definizione, lo sciopero consiste in un’astensione concertata dal lavoro per la tutela di un interesse collettivo.38 Ad esso è possibile ricorrere per far valere rivendicazioni contrattuali dirette a modificare -in senso migliorativo- le condizioni di lavoro esistenti e, quindi, quale strumento di risoluzione dei conflitti di lavoro (c.d. “sciopero economico a fini contrattuali”.39

Si è conseguentemente affermato che il datore di lavoro è costretto a subire lo sciopero anche quando nulla può fare per evitarlo, come quando, per esempio, esso è rivolto al perseguimento di interessi di rango costituzionale che esulano dalla disponibilità del datore di lavoro stesso (Ghezzi e Romagnoli 1997, 219 e 220).

Oltre che per ragioni di carattere economico-contrattuale, le astensioni dal lavoro possono essere proclamate anche in funzione meramente politica (c.d. “sciopero politico”). In merito a tale forma di sciopero si è assistito ad una progressiva evoluzione giurisprudenziale, da un indirizzo restrittivo ad uno più in linea con il favor libertatis. In un principio, infatti, si ammetteva la possibilità di perseguire penalmente lo sciopero effettuato “allo scopo di ottenere provvedimenti che attengano all’indirizzo generale del Governo”, ancorché l’astensione dal lavoro non avesse “alcun collegamento con l’ipotesi dell’articolo 40”.40 In un secondo momento, invece, si è affermato un orientamento che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice: concretamente, l’articolo 503 Codice Penale. La norma in questione è stata considerata lesiva non del diritto di sciopero garantito dall’articolo 40 della Costituzione, bensì della libertà di sciopero considerata quale strumento “idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui al comma 2, dell’articolo 3 della Costituzione”,41 rilevando pertanto che lo sciopero costituisce uno “strumento tipicamente democratico” che permette “al lavoratore una attiva partecipazione alla vita nazionale”.42

Riguardo alla distinzione tra diritto e libertà di sciopero imposta dal rinnovato quadro interpretativo, la stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che solo lo sciopero, in quanto diritto tutelato dall’articolo 40 della Costituzione, non è idoneo a produrre conseguenze sul piano civilistico, non potendo essere addotto come “legittima causa giustificatrice di licenziamento o di altre misure previste dalla disciplina del rapporto di lavoro”.

Per ció che concerne, invece, la semplice libertà di sciopero, anche se essa non può essere penalmente compressa se non a tutela di interessi che abbiano rilievo costituzionale”, resta comunque un inadempimento contrattuale “conservando ogni rilevanza nell’ambito della disciplina del rapporto di lavoro”,43 così da rendere il lavoratore passibile di sanzioni disciplinari.

In attuazione del principio sinallagmatico di correspettività delle prestazioni che sta alla base del rapporto di lavoro, lo sciopero ha come effetto la perdita della retribuzione per il lavoratore (Giugni 2006, 218 e 219), anche per le corrispondenti quote di tredicesima mensilità,44 di ferie,45 di festività e di riposi settimanali.46 Allo stesso modo, al datore di lavoro è data facoltà di far fronte all’assenza dei lavoratori scioperanti con quelli non aderenti all’astensione (c.d. “crumiraggio”), senza che tale iniziativa possa considerarsi comportamento illegittimo o antisindacale (Carinci et al. 2002, 494 e 495), con il solo limite di non poter adibire tali lavoratori a mansioni inferiori o diverse.47

Pur tenendo conto dei principi fissati dalla Consulta, la prevalente dottrina (Ghezzi e Romagnoli 1997, 222-224) si è dimostrata esitante sulla possibilità di escludere lo sciopero politico dall’alveo applicativo dell’articolo 40 della Costituzione Secondo alcuni autori, infatti, anche tale tipologia di astensione dal lavoro viene tutelata come diritto a seguito dell’entrata in vigore del settimo comma dell’articolo 2 della L. 12 giugno 1990, n. 146, “Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge”. In effetti, tale norma, esentando dall’obbligo del preavviso solo gli scioperi in difesa dell’ordine costituzionale, “pone lo sciopero politico sul medesimo piano sul quale si svolgono tutti gli altri tipi di sciopero anche per quel che riguarda la dinamica del rapporto di lavoro” (Ibidem, 215). D’altra parte, vale la pena ricordare che anche la Corte di Cassazione si è espressa nel senso della liceità civile dello sciopero politico.48

Non sono sorte, invece, particolari questioni esegetiche con riferimento al c.d. “sciopero di solidarietà”, ovverosia l’astensione dal lavoro attuata con il solo scopo di sostenere le rivendicazioni di altri lavoratori. La Consulta, infatti, è stata propensa a fare rientrare tale forma di lotta sindacale nella sfera di tutela prevista dall’articolo 40 della Costituzione49 L’unico motivo di dibattito è stato costituito dal fatto che tale forma di sciopero è considerata come un fatto penalmente rilevante alla luce di quanto stabilito dall’articolo 505 del Codice Penale. Tale norma non è stata oggetto di pronuncia di incostituzionalità, in quanto con la stessa Corte Costituzionale (sentenza 28 dicembre 1962, n. 123), esprimendosi in merito, in via interpretativa, ha rimesso al giudice ordinario il dovere di verificare la sussistenza, nei singoli casi concreti, dei presupposti per la tutela dello sciopero, avuto riguardo alla specie e al grado del collegamento esistente “tra gli interessi economici di cui si invoca la soddisfazione”.

Va ricordato che anche l’articolo 40 della Costituzione è dotato di immediata precettività. La mancata emanazione da parte del legislatore delle norme che avrebbero dovuto segnare i limiti e le modalità di esercizio del diritto di sciopero ha determinato tuttavia un vuoto normativo a cui, fino all’emanazione della sopra richiamata L. 12 giugno 1990, n. 146, ha supplito la Consulta.50 A tal fine, la Corte Costituzionale si è avvalsa della tecnica delle sentenze interpretative, di rigetto o di accoglimento, procedendo ad un’attenta selezione tra le disposizioni penali da abrogare in quanto ancora strettamente collegate al regime repressivo dell’ordinamento corporativo e quelle da preservare, seppure con l’apporto di opportune modifiche, in quanto finalizzate alla tutela di interessi ancora preminenti nell’attuale ordinamento (Perone 1978, 364) . Conseguentemente, già prima dell’entrata in vigore della L. 12 giugno 1990, n. 146,51 la Consulta ha considerato meritevoli di tutela, di fronte ad un esercizio indiscriminato del diritto di sciopero, tutta una serie di beni e di interessi di preminente rilievo costituzionale, tra i quali la conservazione “dell’integrità fisica e della vita delle persone”,52 la “libertà di lavoro di chi non aderisce allo sciopero”,53 l’esclusione di “ogni violenza”,54 la “sicurezza pubblica”55 e la “sicurezza verso l’esterno”.56

XI. Conclusioni: la portata assiologica dell’articolo 1 della Costituzione, la realtà attuale e le sfide del futuro

È senza dubbio rilevante che la Costituzione italiana abbia posto a proprio fondamento il lavoro. È in questa singolarità che si cela la profonda portata assiologica e dogmatica del precetto che apre l’articolato costituzionale stabilendo che L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

È importante ricordare che le norme costituzionali non vanno interpretate come elementi a sé stanti. Eppure, l’analisi giurisprudenziale ha messo in evidenza che il sistema ermeneutico, soventemente applicato in sede giurisdizionale, tende a considerare ogni disposizione costituzionale come una monade, come un elemento svincolato dal resto dei precetti fondamentali. Ciò purtroppo ha spesso provocato che le questioni attinenti alle relazioni normative esistenti nel testo costituzionale, rimanessero sullo sfondo e che si trascurasse, pertanto, quella visione d’insieme della Costituzione che è fondamentale per una corretta comprensione degli obiettivi descritti dalla stessa. Questo ha determinado un restringimento dell’orizzonte problematico che, inevitabilmente, ha riguardato il collegamento esistente tra il principio di cui all’articolo 1 della Costituzione, le altre disposizioni relative ai principi fondamentali ad esso riconducibili ed i restanti precetti costituzionali dedicati ai rapporti economici (Di Gaspare 2008, 864).

Il lavoro è, indubbiamente, l’adempimento di un dovere civico. Esso si esercita attraverso lo svolgimento di un’attività umana che non soltanto serve a soddisfare esigenze di natura individuale, ma viene a concorrere al progresso della società civile nel suo insieme. Per tali ragioni la nozione stessa di lavoro assurge a quella di autentico principio di portata costituzionale (Ibidem, 867), tenendo in considerazione quella definizione di “principio” che lo stesso Zagrebelsky (2008) dà, affermando che “ll principio [...] è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza”.

A tutto ciò va aggiunto che il libero svolgimento della personalitá, la meta stessa verso cui indirizzare il proprio destino come individui e membri di una collettivitá, costituiscono aspetti interconnessi con la nozione di lavoro e con la tutela che la Costituzione stabilisce per questo diritto, dovere e principio fondamentale.

Se una delle funzioni più alte di una Costituzione democratica è quella di permettere, attraverso il riconoscimento dei diritti fondamentali e dei diritti sociali, che ogni cittadino si incontri in condizione di “fare, di essere e di potere”, la tutela del diritto al lavoro e la sua efficace realizzazione concorrono alla consecuzione di queste mete ambite.

In questo senso, il lavoro costituisce una delle manifestazioni più chiare del principio di cittadinanza ed è esso stesso un obiettivo primordiale dell’azione politica e di governo (Cavino 2018, 33). Si badi bene che il concetto di cittadinanza che qui evochiamo non è quello di radice liberale che contrappone colui che gode pienamente dei diritti civili e politici, a colui che, essendo straniero, non versa in tali condizioni. Il concetto di cittadinanza che si riconnetta alla nozione di lavoro è sicuramente più ampio. È quello che evoca un’idea di appartenenza ad un progetto comune nel quale si crede e si partecipa con il proprio impegno, le proprie capacità, la propria motivazione, in una parola, con il proprio lavoro. Si tratta di una collaborazione che trascende e va al di lá della nazionalità e delle singolarità, e che conduce ogni individuo a sentirsi parte di un tutto, a condividere un destino comune come lo stesso Calamandrei evocava nel suo celebre “Discorso sulla Costituzione” del 26 gennario de 1955.

La Costituzione protegge il lavoro perchè descrive un meccanismo di sviluppo che nasce dal lavoro stesso. Per queste ragioni, la tutela di questo bene giuridico richiede l’esistenza di meccanismi legali che servano ad impedire che gli agenti politici, sociali, economici, pubblici o privati possano svilirlo, privarlo di dignità o degradarlo.

In un certo senso il lavoro è dignitá e la dignitá è lavoro (Bidart Campos 2005, 189).

Cosí, attraverso l’analisi svolto nelle pagine precedenti, si è cercato di rendere evidente che queste due nozioni sono indissolubilmente legate l’una all’altra. In base a ciò possono essere spiegate le numerose garanzie che la Costituzione italiana descrive per la protezione del lavoro, poichè tutelare quest’aspetto della vita umana, implica irrimediabilmente proteggere anche quel valore superiore dell’ordinamento giuridico che il testo fondamentale della Repubblica riconosce nell’articolo 3: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”.

Pertanto, la mancanza del lavoro o anche una sua scarsa qualità, possono comportare -e troppo spesso comportano- effetti marginalizzanti e di esclusione sociale.

Purtroppo, non sempre un impiego retribuito è preludio di quell’integrazione sociale che la Costituzione desidera, nè consente a chi lo svolge il raggiungimento di un livello di benessere economico ed esistenziale sufficiente alla luce degli standard richiesti dalla nostra legge fondamentale. L’azione di un mercato senza regole e la politica sottomessa alle logiche di quest’ultimo hanno fortemente inciso sui diritti costituzionali e svilito in particolare la portata dell’articolo 1 della Costituzione.

I lavoratori, troppo spesso svalutati, sono soggetti possono trovarsi in uno stato concorrenza reciproca per l’ottenimento di una retribuzione che solo lontanamente si mostra conforme ai requisiti stabiliti dall’articolo 36 della Costituzione. La precarietà dei rapporti di lavoro sta facendo perdere il senso di quella solidarietà di classe che fa eco alla libertà sindacale di cui all’articolo 40 della Costituzione. Il lavoratore va perdendo quel senso di appartenenza che ha portato alle celebri conquiste giuslavoristiche che si produssero in Italia fra gli anni sessanta e settanta. L’espressione disposable worker”, “lavoratore usa e getta” in una traduzione che vorrebbe cercare di renderne l’idea, è una formula che in Italia va, inesorabilmente, acquisendo una ragione di esistere. Ciò si deve al fatto che con essa si indica quella categoria di lavoratori che pur avendo anni di esperienza alle loro spalle, una volta perso il loro lavoro per cause ad essi non imputabili, sono incapaci di trovare altrove un impiego comparabile (O’Flaim e Sehgal 1985), o coloro che sono impiegati in lavori a tempo parziale o per agenzie di lavoro interinale o che sono obbligati all’autoimpiego (Gordon 1996).

L’Italia continua a registrare livelli di occupazione tra i più bassi del panorama europeo. È sufficiente pensare che, le statistiche di Eurostat che descrivono tali livelli relativi al terzo trimestre del 2019, collocano il nostro paese al quint’ultimo posto (subito dopo il Montenegro, la Grecia, la Macedonia del nord e la Turchia), con quasi un 55% di occupati a livello nazionale (Eurostat 2020).

Ed anche se i dati dell’Osservatorio del Precariato, relativi a novembre 2019, descrivono un aumento dei contratti a tempo indeterminato (+383.000 rispetto allo stesso periodo nel 2018) ed un decremento dei contratti a tempo determinado (-257.000 nello stesso arco temporale), è vero anche che i c.d. “contratti di prestazione occasionale” si mantengono sugli stessi livelli dell’anno anteriore e che “l’importo mensile lordo della loro remunerazione effettiva risulta pari a 233 euro” (INPS 2019).

I dati economici attuali fanno sperare in un lento recupero dell’economia nazionale e, dunque, in un incremento dei livelli occupazionali. Tuttavia è ingenuo pensare che quel patrimonio di diritti, garanzie e tutele che hanno accompagnato i lavoratori italiani fino a quasi un decennio fa, possa essere recuperato nel breve termine.

È lecito aver dubbi circa un ritorno al passato, soprattutto quando si è dimostrato di non aver appreso la lezione che Rodotà ha voluto trasmetterci con queste parole: i diritti non sono mai acquisiti una volta per tutte. Sono sempre insidiati, a rischio. La loro non è mai una vicenda pacificata” (2012, 31 e 32).

Ciò che è auspicabile è che la nostra coscienza civile sia capace di spingere il Legislatore a dare nuova vita alle politiche di piena occupazione, di un’occupazione di qualità che può essere ottenuta solo ripristinando quelle tutele che la crisi economica mondiale ha impietosamente eroso.

Agradecimientos

Quisiéramos agradecer las aportaciones del profesor Agudo Zamora que enriquecen ahora este trabajo y su amable labor de revisión, así como la labor de los evaluadores de la revista. No obstante, cualquier error, omisión o imprecisión es exclusivamente imputable los autores.

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*El presente estudio se enmarca en el ámbito del proyecto I+D “Desafíos del Proceso de Construcción de un Espacio Europeo de Derechos Fundamentales” (DER-2017-83779-P, financiado por el Ministerio de Economía y Competitividad) liderado por la Prof.ª Ana Carmona Contreras, Catedrática de Derecho Constitucional de la Universidad de Sevilla.

1Vale la pena ricordare le parole dell’onorevole Basso pronunciate in occasione della seduta del 6 marzo 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente: Ed ecco anche il senso del lavoro, inteso come fondamento della Repubblica. Perché noi non facciamo, e non vogliamo fare, una Repubblica di individui, ma vogliamo fare non una Repubblica di individui astratti, una Repubblica di cittadini che abbiano solo una unità giuridica, vogliamo fare la Repubblica, lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per la propria opera, per la propria partecipazione effettiva, alla vita di tutti. E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta nell’interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana”. Banche dati professionali della Camera dei Deputati, disponibile online su http://bdp.camera.it/init/cost/scheda/12?links=P-1D1D2D3D4D5D6D7D8D9D10D11D12D13D14D15D16D17D18D19 D20D21D22D23D24D25D26D27D28D29D30D31N1 (consultato il 3 de agosto de 2019).

2Corte Costituzionale, 27 de ottobre de 1988, n. 998.

3Corte Costituzionale, 27 gennaio 1957, n. 3; Corte Costituzionale, 8 aprile 1958, n. 30; Corte Costituzionale, 26 gennaio 1960, n. 2; Corte Costituzionale, 22 giugno 1963, n. 105; Corte Costituzionale ordinanza, 11 marzo 1961, n. 3.

4Ex multis Corte Costituzionale, 30 luglio 1993, n. 365; Corte Costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 294; Corte Costituzionale, 30 dicembre 1997, n. 466.

5La Corte Costituzionale ha chiarito che, in una prospettiva di “progressiva garanzia del diritto al lavoro, dettato nell’interesse di tutti i cittadini”, il Legislatore dovesse adeguare “sulla base delle valutazioni di sua competenza, la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro”, attraverso l’individuazione di “doverose garanzie” e di “opportuni temperamenti” per i casi in cui “si renda necessario far luogo ai licenziamenti”. Tutto ciò pur escludendo che la norma censurata potesse ritenersi costituzionalmente illegittima, in quanto non più espressiva di un principio generale dell’ordinamento, stante la presenza di una contrattazione collettiva e di interventi legislativi settoriali che “a tutela di particolari interessi dei lavoratori” ne avevano già “progressivamente ristretto” la sfera di efficacia, introducendo limitazioni al potere datoriale di recesso ad nutum.

6Corte Costituzionale, 14 aprile 1969, n. 81.

7Corte Costituzionale, 9 marzo 1968, n. 22; Corte Costituzionale ordinanza, 4 maggio 1972, n. 87; Corte Costituzionale, 22 gennaio 2015, n. 1.

8Corte Costituzionale, 7 febbraio 2000, n. 49.

9Cass. civ., sez. lav., 12 maggio 1951, n. 1184; Cass. civ., sez. lav. 21 febbraio 1952, n. 461.

10Come, ad es., i superminimi, i trattamenti ad personam, scatti di anzianità, mensilità supplementari oltre la tredicesima. Cfr. in tal senso, Cass. civ., sez. lav., 18 marzo 2004, n. 5519; Cass. civ., sez. lav., 13 marzo 2002, n. 6878; Cass. civ., sez. unite, 29 maggio 1993, n. 6030.

11Cass. civ., sez. lav., 20 maggio 2004, n. 9643; Cass. civ., sez. lav., 18 agosto 2003, n. 12076; Cass. civ., sez. lav., 17 maggio 2003, n. 7752, eccetera.

12Bisogna segnalare che, tale precetto, è poi stato abrogato dal DL 26 marzo 2001, n. 151, “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita’ e della paternita’, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”.

13Vale la pena ricordare che il divieto di lavoro notturno è stato poi definitivamente eliminato dall’articolo 17 della L. 5 febbraio 1999, n. 25, “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunita’ europee-legge comunitaria 1998”.

14Cass. civ., sez. II, 15 luglio 1968, n. 2538.

15Corte Costituzionale 15 luglio 1991, n. 341.

16Bisogna ricordare che tale normativa è poi stata abrogata dalla Direttiva 2010/18/ UE del Consiglio dell’8 marzo 2010, “che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale concluso da Businesseurope, UEAPME, CEEP e CES e abroga la direttiva 96/34/CE”.

17Corte Costituzionale 15 luglio 1991, n. 341.

18Cosí si espressò l’onorevole Corbi durante la seduta antimeridiana dell’Assemblea Costituente del giorno 10 maggio 1947: “...di qui l’urgenza, la necessità di disciplinare e di garantire il lavoro dei giovani, così come si è fatto per gli adulti, così come si è fatto per le donne”. Banche dati professionali della Camera dei Deputati, disponibile online su http://bdp.camera.it/init/cost/scheda/843?links=P27D841D842D843D844D845D846D847D848D849D850D851D852D853D854D855D856D857D858D859D860D861D862D863D864D865 D866D867D868D869D870D871N29 (consultato il 6 dicembre 2019).

19Apportate dal DL 4 agosto 1999, n. 34, “Attuazione della direttiva 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro”; dal DL 18 agosto 2000, n. 262, “Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 345, in materia di protezione dei giovani sul lavoro, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128”; dal DL 21 giugno 2013, n. 69, “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”; e, da ultimo, dal DL. 15 febbraio 2016, n. 39, “Attuazione della direttiva 2014/27/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, che modifica le direttive 92/58/CEE, 92/85/CEE, 94/33/CE, 98/24/CE del Consiglio e la direttiva 2004/37/ CE del Parlamento europeo e del Consiglio, allo scopo di allinearle al regolamento (CE) n. 1272/2008, relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele”.

20Si è ritenuto che la norma abbia perseguito finalità prevalentemente protettive attraverso, ad esempio, la prescrizione di visite mediche preventive e periodiche e l’introduzione di svariati divieti e limitazioni al lavoro. Ad esempio: il divieto di adibire i bambini al lavoro, salvo che per attività di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario, solo previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro (D.T.L.) e previo assenso scritto dei genitori titolari della potestà genitoriale. Allo stesso modo, la L. 17 ottobre 1967, n. 977 ha introdotto il divieto di adibire gli adolescenti a mansioni che comportino l’esposizione a particolari agenti fisici, biologici e chimici, fatta eccezione per il caso in cui tali attività vengano svolte per motivi didattici e di formazione professionale e dietro preventiva autorizzazione della D.T.L.

21In questo senso si espressó l’onorevole MEDI durante la seduta dell’Assemblea Costituente del giorno 6 maggio 1947: “È necessario rimettere l’uomo nella dignità, ridargli nella dignità la libertà, e la libertà nell’ordine; ognuno collabori a far sorgere il senso della solidarietà umana, della carità, della assistenza da tutte le parti…..Il dovere è quello di aiutare, di favorire, di venire incontro, di guidare, di promuovere. Anche lo Stato organizzerà la sua opera fondamentale di assistenza e di previdenza; e dall’altro verrà incontro a tutte quelle iniziative sane, corrette, oneste che cercano di raccogliere dalle mani di chi più ha quel bene in eccesso, quel superest che sia dato a coloro che ne abbiano meno”. Banche dati professionali della Camera dei Deputati, disponibile online su http://bdp.camera.it/init/cost/scheda/733?links=P-1D733N9999 (consultato il 15 marzo 2019).

22La relazione dei lavori della Prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione indica che, nella seduta del 9 ottobre 1946, l’onorevole Dossetti precisò che “all’affermazione del diritto e del dovere da parte del cittadino di svolgere un’attività, segue quella che garantisce a chi lavora una retribuzione che gli assicuri un’esistenza libera e dignitosa; quindi si tiene conto dell’ipotesi di chi, per cause indipendenti dalla sua volontà, si trova ad un certo momento nell’impossibilità di lavorare e quindi di provvedere a sé e alla famiglia”. F. Calzaretti, “La nascita della Costituzione. Le discussioni in Assemblea Costituente a commento degli articoli della Costituzione”, disponibile online su https://www.nascitacostituzione.it/02p1/03t3/038/index.htm?art038-006.htm&2 (consultato il 26 novembre 2019).

23Corte Costituzionale 20 luglio 1988, n. 926.

24Cass. civ., sez. lav., 26 marzo 2010, n. 7380: “Il contratto di lavoro stipulato dal cittadino extracomunitario privo di permesso di soggiorno non è affetto da nullità per illiceità della causa o dell’oggetto, pertanto il lavoratore ha diritto alla tutela giurisdizionale con riferimento ai diritti garantiti dall’articolo 2126 CC. Accertato il diritto alla retribuzione, consegue l’obbligo del datore di lavoro di versare i contributi all’Inps in relazione alle retribuzioni dovute”.

25Corte Costituzionale 26 luglio 1995, n. 390; Corte Costituzionale 26 maggio 1989, n. 307; Corte Costituzionale 9 dicembre 2005, n. 439.

26Corte Costituzionale 30 dicembre 1972, n. 213.

27Cass. civ., sez. lav., 14 aprile 2001, n. 5596; Cass. civ., sez. lav., 19 marzo 1985, n. 5122; Cass. civ., sez. lav., 27 giugno 1986, n. 4303; Cass. civ., sez. lav., 5 marzo 1992, n. 2664; Cass. civ., sez. lav., 6 novembre 1990, n. 10654; Cass. civ., sez. lav., 8 febbraio 1986, n. 829; Cass. civ., sez. lav., 7 giugno 1984, n. 3440; eccetera.

28Corte Costituzionale 1 aprile 2015, n. 51; Cass. civ., sez. lav., 18 marzo 2004, n. 5519; Cass. civ., sez. lav., 20 febbraio 2019, n. 4951; eccetera.

29Cass. civ., sez. lav., 29 ottobre 2015, n. 22126; Cass. civ., sez. lav., 3 luglio 2003, n. 16635.

30Cass. civ., sez. lav., 13 dicembre 2012, n. 22927.

31Cass. civ., sez. lav., 24 febbraio 1990, n. 1403.

32Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 1993, n. 1438.

33Convertito dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari”.

34Corte Costituzionale, 4 ottobre 2012, n. 221.

35Cass. civ., sez. lav., 8 luglio 1987, n. 5259; Cass. civ., sez. lav., 15 gennaio 1986, n. 188; Cass. civ., sez. lav., 10 marzo 1984, n. 1674; Cass. civ., sez. lav., 4 novembre 1986, n. 2042.

36Cass. civ., sez. lav., 3 aprile 1996, n. 3092.

37Cass. civ., sez. lav., 18 febbraio 1997, n. 1997.

38Corte Cost. 28 dicembre 1962, n. 123; Corte Costituzionale 14 gennaio 1974, n. 1; eccetera.

39Corte Costituzionale 14 gennaio 1974, n. 1.

40Corte Costituzionale 28 dicembre 1962, n. 123; Corte Costituzionale 14 gennaio 1974, n. 1.

41Corte Costituzionale 27 dicembre 1974, n. 290.

42Corte Costituzionale 13 giugno 1983, n. 165.

43Corte Costituzionale 27 dicembre 1974, n. 290.

44Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2001, n. 7196.

45Cass. civ., sez. lav., 15 febbraio 1985, n. 1315.

46Cass. civ., sez. lav., 16 settembre 2016, n. 18195.

47Cass. civ., sez. lav., 6 agosto 2012, n. 14157; Cass. civ., sez. lav., 3 giugno 2009, n. 12811; eccetera.

48Cass. civ., sez. lav., 21 agosto 2004, n. 16515.

49Corte Costituzionale 28 dicembre 1962, n. 123.

50Corte Costituzionale 17 marzo 1969, n. 31.

51Successivamente integrata e modificata dalla L. 11 aprile 2000, n. 83, “Modifiche ed integrazioni della legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.

52Corte Costituzionale, 28 dicembre 1962, n. 124.

53Corte Costituzionale, 17 marzo 1969, n. 31; Corte Costituzionale 27 dicembre 1974, n. 290; eccetera.

54Corte Costituzionale, 27 dicembre 1974, n. 290.

55Corte Costituzionale, 4 gennaio 1977, n. 4.

56Corte Costituzionale ,17 marzo 1969, n. 31.

Received: March 13, 2020; Accepted: October 14, 2020

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