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Acta poética

versión On-line ISSN 2448-735Xversión impresa ISSN 0185-3082

Acta poét vol.45 no.1 Ciudad de México ene./jun. 2024  Epub 06-Mayo-2024

https://doi.org/10.19130/iifl.ap.2024.1/00s231xo074 

Artículos

Risonanze classiche nel racconto della peste del Decameron

Resonancias clásicas en el relato de la peste en el Decamerón

Classic Resonances in Decameron’s Plague Tale

1Universidad Nacional Autónoma de México, Instituto de Investigaciones Filológicas, giuditta.cavalletti@gmail.com


Resumen:

Este texto propone una lectura de la peste narrada en el Decamerón que examina la presencia de posibles estratificaciones o resonancias de fuentes antiguas y medievales que pueden entenderse en el relato que Giovanni Boccaccio ofrece al inicio de su obra, cuando narra el origen y consecuencias de la peste que se desató en 1348, terrible suceso que constituye el trasfondo y marco de la historia. En las próximas páginas examinaremos tanto la deuda que Boccaccio tiene con la Historia Longobardorum de Paolo Diacono, considerada la principal fuente en la que se basó el autor florentino para dar voz y cuerpo a la peste florentina del siglo XIV, como algunos detalles que están presentes en la historia y que parecen recordar otras narrativas.

Parole chiave: Boccaccio; Decameron; peste; ricezione; classici

Astratto:

In questo testo si propone una lettura della peste raccontata nel Decameron che prenda in esame la presenza di possibili stratificazioni o risonanze di fonti antiche e medievali che si possono intuire nel racconto che Giovanni Boccaccio offre all’inizio della sua opera, quando narra l’origine e conseguenze della peste scatenatasi nel 1348, terribile avvenimento che fa da sfondo e cornice al racconto. Nelle prossime pagine si prenderà in esame sia il debito che Boccaccio ha con la Historia Longobardorum di Paolo Diacono, considerata la fonte principale da cui attinse l’autore fiorentino per dare voce e corpo alla pestilenza fiorentina del XIV secolo, sia alcuni dettagli che sono presenti nel racconto e che sembrano richiamare altre narrazioni.

Parole chiave: Boccaccio; Decameron; peste; ricezione; classici

Abstract:

This text proposes a reading of the plague narrated in the Decameron that examines the presence of possible stratifications or resonances of ancient and medieval sources that can be identified in the story that Giovanni Boccaccio offers at the beginning of this work when he narrates the origin and consequences of the plague that broke out in 1348, terrible success that constituted the background and mark of history. In the following pages we will examine the debt that Boccaccio owes to the Paolo Diacono’s Historia Longobardorum considered the main source from which the Florentine author drew to give voice and body to the Florentine plague of the fourteenth century, and others details that are present in the story and which seem to recall other narratives.

Keywords: Boccaccio; Decameron; Plague; Reception; Classics

Introduzione

È risaputo che Giovanni Boccaccio, nel tratteggiare i dettagli e i momenti salienti e significativi della peste che colpì la città di Firenze nel 1348, sembra aver tenuto a mente e preso spunto in gran parte dal racconto che Paolo Diacono fece nella sua Historia Longobardorum della peste scatenatasi nel 541 d.C. tra longobardi e bizantini e battezzata come la ‘peste di Giustiniano’.1 Sebbene la presenza del racconto di Diacono nella trama del Decameron sia indiscutibile, soprattutto se si analizza il modo in cui Boccaccio organizza i diversi momenti dello sviluppo della malattia e delle sue conseguenze sul vivere civile, è altrettanto veritiero che esistono in questo racconto aspetti che non sono presenti nella fonte medievale, bensì in altri scritti riguardanti anch’essi una pestilenza. Nelle pagine seguenti, dopo aver ricordato gli elementi più significativi del racconto di Boccaccio e i parallelismi che si possono tracciare con lo scritto di Diacono, si mostrerà come sia possibile riscontrare, nella descrizione della drammatica esperienza fiorentina, l’esistenza di altre risonanze, provenienti dalla tradizione classica latina, che sembrano in qualche modo essere state rielaborate dal Boccaccio lettore (in forma cosciente o incosciente è difficile assicurarlo) e inserite nella trama della cronaca del Decameron, utilizzate per approfondire certi aspetti rilevanti della peste. Per raggiungere il suddetto obiettivo, si prenderanno in esame alcuni passaggi di tre autori antichi e si metteranno a confronto con il Decameron, mostrando quali sono le risonanze o tracce che è possibile intravedere sullo sfondo del racconto dell’autore fiorentino e che rappresentano una novità rispetto a quanto riportato nella Historia Longobardorum.

‘L’orrido cominciamento’

Come è noto, la peste che colpì la città di Firenze durante il 1348 rappresenta il motivo che dà inizio alla narrazione del Decameron: Boccaccio racconta come la ‘mortifera pestilenza’ pervenne per “operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali” (Boccaccio 1999: 109): è interessante notare come l’autore non prenda una posizione riguardo all’annosa questione, molto attuale nel dibattito culturale del periodo in cui scrisse l’opera, circa l’origine della pestilenza, vale a dire se questa fosse da attribuire a cause divine o piuttosto a motivi naturali. Leggendo questo passaggio, sembra che l’autore consideri valide ambedue opzioni, tanto da metterle sullo stesso piano con l’utilizzo della disgiuntiva ‘o’. Informa poi i suoi lettori che la malattia si propagò da Oriente a Occidente, mostrando sintomi diversi a seconda del luogo dove si manifestava:

E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno (Boccaccio 1999: 110).

Dopo il contagio e il suo manifestarsi in forme diverse da corpo a corpo, continua il racconto, nell’arco temporale di tre giorni, potevano darsi due situazioni: o sopraggiungeva la morte oppure, se il malato fosse riuscito a superare questo primo momento, avrebbe potuto avere una remota possibilità di salvezza. Boccaccio sottolinea nel suo racconto come ci si rese conto ben presto che era pericoloso non solo parlare con i malati, ma anche stare loro accanto e toccare i loro indumenti, e che per questo si iniziò a schifare e fuggire gli infermi e si abbandonarono prima le case poi, addirittura, i propri famigliari e, infine, la città stessa: “era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano” (Boccaccio 1999: 115).

Parlando di come la gente reagiva al propagarsi della peste, Boccaccio racconta che si crearono brigate di persone che vivevano insieme, separandosi e isolandosi non solo dagli ammalati, ma mantenendo le distanze anche dai sani: alcuni non volevano sentir parlare di morte e infermi; altri dicevano che bisognava abbandonarsi alla lussuria, soddisfando così ogni appetito, dato che non vi era certezza alcuna del futuro. Esisteva poi un terzo gruppo, definito la ‘mezzana via’, composto da coloro che non cadevano in nessuna di queste tentazioni, ma portavano “nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente” (Boccaccio 1999: 114). Nel racconto il nostro autore si sofferma, in maniera particolarmente puntuale e precisa, sulle conseguenze dell’abbandono degli infermi, facendo riferimento al fatto che si arriverà addirittura a non celebrare più quelle cerimonie che scandivano la vita della comunità nel momento in cui sopraggiungeva la morte: si tralasciavano tutti quei riti che, fino a quel momento, erano previsti in occasione della morte di una persona cara, come una degna sepoltura per i corpi, accompagnati in questo ultimo viaggio dalle lacrime e dai lamenti dei presenti, in particolare delle donne. Al silenzio quasi assordante dei lamenti si contrappone, in maniera volutamente esagerata, una presenza eccessiva e spropositata di corpi abbandonati per le strade, accatastati uno sull’altro, creando così, nella mente di chi legge o ascolta il racconto, un’immagine assai vivida sia della tragedia che della profonda desolazione che in quei momenti affligge la città.

In effetti, durante la lettura, la sensazione che si ha è netta e pungente: la città si svuota via via di vita mentre si riempie sempre più di morte e silenzio e all’assenza dei vivi fa da contraltare una presenza massiccia di cadaveri. Il racconto continua, inesorabile, la sua discesa verso la catastrofe: ciò che sta accadendo in città, pian piano, inizia a diffondersi, colpendo la campagna limitrofa, e le conseguenze nefaste della pestilenza si traferiscono dalle persone agli animali e da questi alle cose. L’abbandono che, pian piano, caratterizza ogni aspetto della vita umana farà sì che la gente muoia non solo per la forza della malattia, ma anche (e verrebbe da dire soprattutto) per colpa della noncuranza di coloro che sono accanto ai malati e li lasciano a se stessi, privilegiando così la propria salvezza personale e non l’aiuto reciproco, salvaguardando la propria incolumità e individualità piuttosto che il bene e la salvezza della comunità:

Che più si può dire, lasciando stare il contado e alla città ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ‘l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomila creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? (Boccaccio 1999: 120).

Sebbene il racconto della peste può considerarsi un topos letterario, che ha acquisito nel tempo una vera e propria struttura riguardante gli elementi che la devono caratterizzare, segnalando, per esempio, l’origine geografica e i modi di trasmissione, soffermandosi sia sui particolari dei sintomi che sulle caratteristiche della loro durata e sugli effetti che la malattia ha sugli uomini e l’impatto sulla comunità e società, è interessante notare quali aspetti vengono via via approfonditi con maggior cura e dettaglio in ogni narrazione che si è fatta riguardo alle diverse epidemie che hanno colpito l’umanità. Sono proprio queste caratteristiche peculiari che rendono interessante ogni narrazione e permettono di cogliere i diversi approcci a uno stesso argomento e consentono, a chi legge, di comprendere quali siano le intenzioni che soggiacciono al racconto stesso.

Nel caso di Boccaccio, per esempio, la cornice narrativa da lui creata offre al lettore molte informazioni e dettagli, non tanto della malattia in sé, quanto piuttosto dei suoi effetti sulla vita famigliare e sociale; in particolare, si nota l’intenzione dell’autore di trattenere il proprio sguardo su certi dettagli dando così spazio a una riflessione riguardo all’incapacità della società di dare una risposta comune e coesa davanti al pericolo e all’aggressività della pandemia. Sembrerebbe, il racconto dell’epidemia, quasi una scusa per ragionare sulla situazione in cui versa la comunità fiorentina, incapace di rispondere, proprio come collettività, a una calamità come quella della peste. Come lettore l’impressione che si ha leggendo queste prime pagine del Decameron è quella di un’esagerata crudezza, di un interesse quasi morboso nel dettagliare tutti i particolari che possano generare una riflessione sulle conseguenze catastrofiche che il propagarsi di questa malattia ha sulla società fiorentina e non solo sui singoli individui:

L’indurirsi degli animi nel tempo della spaventosa calamità, il ‘proponimento bestiale’ di abbandonar gli infermi, il cadere della ‘reverenda autorità delle leggi, così divine come umane’, la dissolutezza accanita, la terribilità della strage senza nè limiti nè sollievo, tutti questi fatti sono notati con una meraviglia dolorosa, con un senso di orrore che, per quanto misurato, si mantiene costante nell’intonazione di ogni pagina e ne costituisce il motivo animatore. Gli effetti che ne ricava il Boccaccio sono, naturalmente, assai minori di quelli che ne ricava il Manzoni, ispirato da una fede e da una potenza di umanità, da cui l’autore del Decameron era ben lontano: ma il complesso lascia nell’anima l’impressione di una solennità pensosa e presenta la fantasia del Boccaccio sotto un aspetto molto diverso da quello che le è più comune, e con linee così originali da non permettere di trascurarlo. Nella lenta gravità dello stile si disegna lo squallore grandioso dell’universale dissolvimento della vita civile; nelle pagine costruite con un ordine così pacato, lo scompiglio del flagello si ricompone architettonicamente, dominato da una fantasia superiore che ne addita con sicurezza le linee maestre (Boccaccio 1924: 9).

In effetti, l’intenzione di Boccaccio appare assai chiara: vuole contrapporre a questa cornice macabra, frutto della descrizione particolareggiata della peste e delle sue ripercussioni sia a livello fisico che morale e sociale, la luce quasi abbagliante che proviene da un gruppetto di giovani ragazzi e ragazze che, allontanandosi da questa situazione di morte e sfacelo, proveranno a ricreare in un altro luogo uno spazio di convivenza, un’alternativa tanto sociale come civile a un momento storico che l’epidemia ha messo profondamente in crisi:

L’oppressione fisica e morale delle pagine d’apertura è così evidente, che l’autore più volte se ne scusa con i lettori e in particolare con le lettrici, giustificandola però come necessaria premessa della fase successiva della narrazione, che senza quell’orrido cominciamento non potrebbe esprimere i suoi valori e le sue finalità terapeutiche e filosofiche. Quella che ci viene proposta è dunque una descrizione volutamente estremizzata, perché il suo obiettivo è rappresentare il momento della regressione allo stato ferino, l’imbestiamento degli uomini, la negazione delle leggi umane e divine e quindi il dissolvimento della vita civile di Firenze, in cui dominano bestialità e corruzione; a tutto ciò si contrappongono la civiltà, l’onestà dei costumi, la raffinatezza degli usi della brigata giovanile, che come un’arca salva dal diluvio etico un nucleo dei valori originali della civile convivenza (Giansante 2012: 51).

La proposta che Boccaccio espone attraverso le giornate che scandiscono la vita dei ragazzi e ragazze e che rappresenta il nocciolo del suo esperimento narrativo si nutre di quest’introduzione funesta dai toni esageratamente catastrofici: grazie a questo incipit volutamente macabro l’autore mostra, in maniera antitetica, le due situazioni (quella dove prevale l’individualismo e quella in cui si lascia spazio all’aiuto reciproco) e come sia possibile una rinascita solo se si è disposti a scegliere il principio della collettività a scapito di quello dell’individualità:

Nella “commedia umana” del Decameron, il percorso che condurrà, come nel modello dantesco, al giardino dell’Eden, ha il suo punto di partenza nella città appestata, ambiente degradato in cui dominano orrore e abbrutimento, una cupa oscurità in cui vediamo aggirarsi come zombies figure di umanità imbestiata. Questo punto-zero della civiltà, in cui vengono rinnegati gli elementi primari della umana socievolezza -amicizia, vicinato, parentela- risponde a una precisa esigenza di architettura ideologica, perché da qui salperà l’arca in cui i dieci giovani conserveranno il seme dei valori di onestà, gentilezza, misura, fratellanza, consentendo poi alla civiltà di riprendere il suo cammino (Giansante 2015-2016: 89).

La fonte a cui attinge Boccaccio

Come già anticipato all’inizio di queste pagine, analizzando le parole di Boccaccio riguardo alla peste fiorentina, si è messo in luce il debito che questi ha con il racconto che Paolo Diacono fa dell’epidemia conosciuta come ‘peste di Giustiniano’:

Quando Boccaccio traccia il quadro della peste che colpì Firenze nel 1348, il testo su cui modella la descrizione degli effetti esiziali del morbo sui corpi umani e in genere su tutta la natura è l’apocalittica narrazione di Paolo Diacono relativa alla pestilenza sviluppatasi in Italia durante la guerra fra longobardi e bizantini (Historia Longobardorum II, 4-5). È merito di Vittore Branca l’aver documentato la conoscenza e l’interesse di Boccaccio per l’opera dello storico medievale ed aver ricostruito la trama dei prestiti che intercorre tra i due testi (Braccini-Marchesi: 139).

In effetti, se mettiamo a confronto la narrazione di Boccaccio con quella che ci offre Paolo Diacono è possibile notare qual è il motivo che ha spinto molti a pensare che Boccaccio abbia tenuto a mente questo racconto quando ha pensato alla struttura da dare alle sue parole intorno alla peste di Firenze. Anche se i due testi differiscono in quanto a prolissità, essendo Diacono molto più conciso e in alcuni passaggi quasi sbrigativo nella sua esposizione rispetto a quella presente nel Decameron, sono molti i parallelismi che si possono riscontrare fra i due autori, in particolare in ciò che riferiscono riguardo ai sintomi e ai contraccolpi fisici e sociali della peste: entrambi iniziano raccontando quali erano i segni che lasciava sul corpo delle persone, con un’attenzione sia ai sintomi sia alla durata della malattia; è da sottolineare anche il fatto che entrambi fanno riferimento allo spazio temporale di tre giorni come periodo durante il quale si decideva, per così dire, il destino del malato, il cui esito poteva essere positivo o negativo. Entrambi riferiscono poi che molti morivano nonostante l’intervento dei medici e l’assunzione di medicinali, quasi a sottolineare la straordinarietà dell’epidemia, contro cui nulla potevano i rimedi che si conoscevano e utilizzavano in quel periodo. Sia Diacono che Boccaccio, inoltre, soffermano il loro sguardo sulle conseguenze del propagarsi della malattia, sui segni dell’abbandono prima delle case, poi della città e infine dei campi e perfino degli animali; per sottolineare questo cambiamento, tutti e due fanno riferimento a come, all’inizio del propagarsi della malattia, ovunque c’erano lacrime e lutto, che lasciarono il posto, in breve tempo, al silenzio e alla morte. In alcuni passaggi è evidente come la lettura delle parole di Diacono abbia fatto presa sul pensiero del Boccaccio ed è possibile notare il dialogo che intercorre tra i due, per esempio quando quest’ultimo temporeggia e riflette sulle conseguenze che la pestilenza scatena negli uomini: se Diacono afferma che “i figli abbandonavano insepolti i corpi dei genitori; i genitori, dimentichi dell’affetto più naturale, abbandonavano i figli che ardevano per il male” (Diacono: 39), Boccaccio offre al lettore una sua personale riflessione rispetto a quest’atteggiamento, considerandola “maggior cosa e quasi non credibile” (Boccaccio 1999: 115).

Forse la prima differenza importante fra i due racconti sta proprio nel fatto che, nel caso di Boccaccio, si tratta di un’esperienza vissuta sulla propria pelle: l’autore fiorentino non solo ha visto da vicino la malattia e le sue manifestazioni, ma ha toccato con mano le conseguenze assai nefaste che ha portato con sé. Il suo racconto, in poche parole, è il frutto di un’esperienza che ha generato in lui una riflessione profonda riguardo agli effetti sia immediati che a lungo termine dell’epidemia:

Sono cose viste, esperienza autobiografica, commenti vissuti, che salgono ai fastigi della fantasia poetica: in questa ispirazione occasionale di tutta l’opera boccaccesca, io sento la modernità dell’artista. È noto l’aforisma del Goethe che la grande poesia è sempre poesia di occasione, cioè la poesia vera nasce dalla attualità di una passione; è poesia di occasione nel senso trascendentale e non temporalistico del termine. Ma questa definizione goethiana della poesia caratterizza non tutta la poesia, ma la poesia moderna: la quale nasce da questo mondo e in questo mondo (Russo 1937: 216).

A differenza del racconto di Diacono, infatti, Boccaccio allude in più occasioni a un sentimento di meraviglia, stupore e perfino incredulità rispetto a ciò che la peste scatena negli uomini, portando a una corruzione non solo dei costumi, ma anche dei rapporti sociali. Questo tipo di riflessione è assente in Diacono, che si preoccupa semmai di registrare un avvenimento, le sue cause e i suoi effetti e lo fa in maniera molto più asettica rispetto a Boccaccio che, invece, si sofferma a descrivere con particolare dovizia di dettagli ciò che ha visto accadere e “si perde deliziosamente nei particolari delle cose mostruose, terribili, meravigliose, straordinarie che avvengono nella tristezza generale” (Russo 1937: 217).

Leggendo e mettendo a confronto fra loro le due cronache, se è vero che è possibile riscontrare in Diacono la struttura e l’intreccio da cui Boccaccio ha preso spunto, è altrettanto certo che è possibile notare come lo scrittore fiorentino abbia aggiunto spunti e riflessioni originali rispetto alla sua fonte, rendendo il suo testo molto più intimo e ricco di particolari rispetto a quello di Diacono. È proprio in questo ampio respiro che sembrano inserirsi alcune presenze classiche che fungono quasi da eco nel racconto di Boccaccio. Alla presenza di queste evocazioni letterarie dedicheremo ora la nostra attenzione, cercando di mostrare come l’autore antico sembri condizionare in qualche modo l’autore moderno, ma come anche l’autore moderno, a sua volta, offra una chiave di lettura, a volte perfino inaspettata, dell’antico.2

Alcuni echi classici presenti nel Decameron

Sebbene, come già ricordato, sia possibile riscontrare una risonanza dell’opera di Paolo Diacono e l’effetto che quest’ultima ebbe sull’immaginario di Boccaccio, si vuole qui mostrare la presenza di alcuni altri echi nel racconto della peste fiorentina, che fanno riferimento a situazioni e dettagli che non sono riscontrabili nella Historia Longobardorum, e che, dal nostro punto di vista, possono ritrovarsi nel racconto che tre autori antichi latini fanno riguardo a epidemie avvenute nel mondo classico. Il riscontro della presenza di altre voci fra le parole di Boccaccio inizia con lo storico latino Tito Livio che, nel libro XXV (7-15) della sua opera Ab Urbe condita, racconta la peste che colpì romani e cartaginesi impegnati sul campo di battaglia, durante la seconda guerra punica:

Ma sopravvenne, a causa di una pestilenza, una sventura che colpì tutte e due le parti, tale da distogliere senz’altro gli animi degli uni e degli altri dai disegni di guerra. Per il carattere malsano, infatti, della stagione autunnale e della natura dei luoghi, una calura di insopportabile violenza fece ammalare quasi tutti negli accampamenti delle due parti, molto di più, tuttavia, fuori della città che all’interno di essa. E dapprima soltanto per colpa della stagione e del luogo si era colpiti dalla malattia e si moriva; in seguito, lo stesso prestar cure e il toccare gli ammalati diffondeva il morbo, al punto che chi ne era stato colpito o moriva abbandonato e senza cure, oppure trascinava con sé, contagiato dal medesimo morbo violento, chi lo assisteva e lo curava, e perciò ogni giorno c’eran funerali e la morte davanti agli occhi, e da ogni parte giorno e notte si udivano gemiti. Alla fine, per l’abitudine al male ci si era cosí abbrutiti negli animi che non solo {non} si accompagnavano in corteo i morti con lacrime e con la dovuta lamentazione, ma neppure si faceva loro il funerale o li si seppelliva, e i cadaveri giacevano stesi a terra, sotto gli occhi di chi era in attesa di una morte analoga e i morti annientavano i sani, sia con la paura sia con la putrefazione e il puzzo pestilenziale dei corpi. E perché fosse il ferro, piuttosto, a farli morire, alcuni davan da soli l’assalto ai posti di guardia dei nemici. L’epidemia, però, {aveva aggredito} l’accampamento dei Cartaginesi con molto maggior violenza che quello romano; {i Romani, infatti,} mediante il lungo assedio posto a Siracusa si erano maggiormente abituati al clima e alle acque. Dell’esercito dei nemici, i Siculi, non appena si accorsero che il morbo si diffondeva in conseguenza dell’atmosfera malsana del luogo, se la svignarono ciascuno nella propria città, lì vicino; ma i Cartaginesi, che non avevano dove rifugiarsi, perirono tutti fino all’annientamento con i comandanti stessi, Ippocrate ed Imilcone. Marcello, súbito all’inizio dell’inferire del male così violento, aveva condotto i suoi entro la città, e i corpi malati avevano ripreso le forze in luoghi coperti e all’ombra. Molti, tuttavia, furono nell’esercito romano i morti dovuti alla medesima epidemia.3

Come si evince dal breve racconto non c’è qui spazio per descrivere i sintomi della malattia, quanto piuttosto gli effetti della stessa: Livio sottolinea come cause dell’epidemia sia il caldo sia la natura del luogo, elementi che favorirono il diffondersi della malattia, ma non racconta nulla circa le conseguenze che questa malattia ha sugli individui, saltando direttamente al modo in cui romani e cartaginesi reagirono davanti a tale emergenza. Se all’inizio saranno le condizioni climatiche le responsabili del propagarsi della malattia, presto il contatto con i malati sarà il veicolo di trasmissione. È interessante sottolineare il fatto che, secondo lo storico antico, i romani sembrano essere meno colpiti rispetto ai cartaginesi, dato che avevano avuto modo di abituarsi al clima durante l’assedio alla città di Siracusa, trovando ristoro in luoghi coperti ed evitando di esporsi al sole; più avanti, lo stesso Livio sembra ripensarci e affermerà che ambedue fazioni perderanno molti uomini a causa del morbo. Un altro aspetto interessante è il modo in cui i soldati reagiscono di fronte all’epidemia: nel momento in cui si rendono conto che non c’è possibilità di salvezza, preferiscono darsi la morte lanciandosi contro il nemico, piuttosto che attendere che la peste faccia il proprio corso; solo ai siculi sembra concessa la possibilità di abbandonare i campi e far ritorno alle proprie case, mentre i romani cercano scampo in città e ai cartaginesi non è dato nessun luogo in cui rifugiarsi.

Mettendo a confronto i due racconti, è possibile riscontrare un punto di contatto tra Livio e Boccaccio nell’attenzione che entrambi rivolgono alle lacrime che non si versano più in onore dei morti, dato che non si celebra più il loro funerale, e il modo in cui sottolineano l’assenza di un lamento che era invece a loro dovuto come ultimo saluto:

Tito Livio, AUC, XXV, 26,10 Boccaccio, Decameron
“Postremo ita adsuetudine mali efferauerant animos, ut non modo lacrimis iustoque comploratu prosequerentur mortuos sed ne efferrent quidem aut sepelirent”. 4 “E pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole”.5

La questione sollevata da Livio riguardante l’imbruttimento degli animi che spinge i soldati a non accompagnare i morti né con le lacrime né con i lamenti e neppure a seppellirli come era usanza abituale, diventa in Boccaccio l’occasione per accennare a qualcosa di ancora più grave, perché quest’assenza di pietà verso gli infermi e i morti si tramuta in risate e motti e rende l’essere umano una bestia:

Nel Decameron, come in Livio, la dissoluzione dei vincoli umani penetra più a fondo e la bestialità abita le anime degli uomini: il proponimento bestiale (I, Introd. 22) delle brigate gaudenti, che corrono la città in un’inutile fuga dal contagio, riattiva etimologicamente la metafora liviana efferaverant animos ormai lessicalmente spenta. In Boccaccio, per effetto della peste, animalità e umanità non si scambiano solo luogo di residenza ma si intersecano; mentre gli animali, come nell’episodio dei porci che sono contagiati dai “mal tirati panni” di 17-18, muoiono dello stesso male degli esseri umani, questi si imbestiano (Braccini-Marchesi: 143).

Questo avvicendarsi tra umanità e animalità, nel racconto di Boccaccio, è molto interessante perché è uno degli aspetti per lui cruciali quando si interroga sugli effetti della peste, vale a dire la corruzione negli usi e costumi degli uomini, che sembrano essere regrediti a uno stadio quasi animalesco:

Boccaccio introduce la descrizione della peste, quasi a scusare l’eccessivo sensualismo delle sue novelle, e si avvale di un’acuta osservazione psicologica: nei periodi straordinari di pestilenza, di terremoti o di guerra, l’animo umano abbandona le leggi regolari della vita, e tenta di compensare le gravi perdite d’ordine morale o fisico o materiale, abbandonandosi ad altre gioie, non permesse o almeno infrenate nei tempi normali, e disfrenando tutte le forze vive della natura (Russo 1970: 39).

Vi è poi un altro momento in cui sembra esserci un’eco liviana nel racconto della peste fiorentina fatta da Boccaccio e riguarda la decomposizione dei cadaveri:

Tito Livio, AUC, XXV, 26, 10-11 Boccaccio 1999: 118
“E i cadaveri giacevano stesi a terra, sotto gli occhi di chi era in attesa di una morte analoga e i morti annientavano i sani, sia con la paura sia con la putrefazione e il puzzo pestilenziale dei corpi. E perché fosse il ferro, piuttosto, a farli morire, alcuni davan da soli l’assalto ai posti di guardia dei nemici”. 6 “E assai n’erano che nella strada publica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altrimenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno”.

Come si può vedere nei due passi, in questo caso è il pestifero odore il protagonista del racconto: la putrefazione e il puzzo pestilenziale tratteggiati dallo storico latino si convertono, in Boccaccio, nell’elemento caratteristico dei corpi degli ammalati che si sono, per questo, corrotti, richiamando ancora una volta le conseguenze non solo fisiche, ma anche morali della peste sull’essere umano. Sia in Livio che nel Boccaccio si insiste su un’assenza che è da entrambi giudicata molto significativa, vale a dire la rinuncia ai riti funebri, vista come un abbandono delle leggi umane e divine che porteranno l’uomo a comportarsi come una bestia:

Nel breve passo sulla peste di Siracusa Livio insiste sulla rottura dei rapporti fondanti il vivere civile che l’esacerbarsi del male porta con sé. Il tema si estende al ritratto boccacciano di una civitas che muore quando muoiano le norme del vivere associato e, in entrambi i casi, è la cessazione dei riti funebri che è presa come segnale della regressione nel non-umano (Braccini-Marchesi: 142).

In effetti, la rottura dei vincoli sociali come conseguenza del male in sé, come viene descritta dallo storico antico, si evolve in Boccaccio e si trasforma in qualcosa di più, perché l’autore fiorentino riconosce in quest’aspetto l’elemento che porterà, in maniera ineludibile, alla morte della civitas, proprio perché il propagarsi della malattia provocherà l’annullamento di tutte quelle regole che, fino a quel momento, reggevano la vita in comune dei cittadini:

II legame tra i due testi è tanto più significativo in quanto la descrizione liviana della peste, che divampa negli accampamenti romani e cartaginesi durante la conquista romana di Siracusa nell’autunno del 212, concorda con il Decameron in alcuni luoghi in cui il racconto di Paolo Diacono è assente o divergente dal testo di Boccaccio. Livio si sottopone, per così dire, alla fonte medievale, la integra e ne suggerisce indirettamente zone d’ombra (Braccini-Marchesi: 140).

È proprio quest’operazione di ricezione e riconfigurazione del racconto antico che si vuole mettere in luce in queste pagine, come una proposta di lettura che permetta sottolineare il lavoro che il poeta fiorentino realizza con le fonti che conosce e che utilizza nel momento in cui vuole mostrare l’epidemia come il momento in cui la società fiorentina entra in una profonda crisi:

Nel momento in cui un autore contemporaneo sceglie di integrare nella propria opera il riferimento, sotto qualsiasi forma, a un classico, molte fra queste problematiche riemergono. […] Questo gesto permette non tanto la conversazione, quanto l’inveramento delle tensioni sotterranee di un classico, eppure, contemporaneamente, lo tradisce, facendo proprie le antiche parole, dunque risemantizzandole (Grendene: 49).

Due passaggi significativi di Ovidio riecheggiano nel Decameron

Non risuona solamente il racconto di Tito Livio nelle pagine del Decameron, ma anche quello di altri autori antichi come, per esempio, Ovidio. Nel libro VII delle sue Metamorfosi, infatti, egli racconta alcuni dettagli della peste di Egina, che si abbatté sui popoli per la collera della dea Giunone: “Una peste tremenda, originata dall’ira di Giunone indispettita che questa terra, Egìna, avesse il nome di mia madre, rivale sua in amore, si abbatté sul mio popolo. Finché sembrò un malanno naturale e oscura ci fu la causa dell’orrenda strage, la combattemmo con la medicina. Ma il flagello era tale che ogni mezzo riusciva vano e bisognava arrendersi”.7

L’autore antico tratteggia la pestilenza come una vera e propria calamità, un male che va ben oltre la comprensione umana, e contro la quale nulla può fare la medicina. Il male, infatti, arriva alle fonti e ai fiumi e causa la morte di cani, pecore, uccelli e addirittura arriva a colpire uomini e donne. In questo racconto, a differenza di quanto visto in Tito Livio, si scorge, nella fonte antica, un particolare interesse nel tratteggiare quali sono i sintomi della malattia, raccontati con una certa precisione, per esempio facendo riferimento all’arrossamento, all’alito putrido, alla febbre, alla lingua gonfia e alla difficoltà nel respirare. Il filtro letterario che sembra essere transitato da Ovidio a Boccaccio riguarda, da un lato, il fatto che niente e nessuno sembra riuscire a impedire che l’epidemia si propaghi, né i medici né l’assunzione di quei medicinali che, in altre situazioni, avevano offerto un certo sollievo e aiuto e, dall’altro, il fatto che proprio quest’assenza di speranza di salvezza spingerà molti malati a lasciarsi andare ai propri desideri, senza più curarsi di ciò che è utile, perché ciò non esiste più:

Ovidio, Met. VII, 558-567 Boccaccio 1999: 111
“Non riescono a sopportare né coperte né altri veli, ma stendono sulla terra i loro petti senza più sensibilità; il corpo non si rinfresca con il contatto della terra, ma è la terra che si riscalda per il calore del corpo. E non c’è chi possa frenare il male, anzi questa terribile malattia si abbatte sugli stessi medici, sicché le medicine nuocciono proprio a loro che le approntano. Quanto più uno si accosta ai malati prestando loro le cure con alquanto impegno, tanto più presto muore, e quando la speranza di salvezza svanisce e quando si accorgono che la fine della malattia è solo nella morte, assecondano le loro voglie e non si curano di quel che sia utile: ché niente è ormai utile”.8 “A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutta infra ’l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate”.

In questi due passi si fa riferimento non solo al fatto che medici e medicine sono inutili per curare una malattia di questo tipo, ma si sottolinea una situazione che sembra davvero straordinaria (nel senso etimologico della parola): chi vuole aiutare la persona contagiata cade velocemente vittima egli stesso di questo male. Boccaccio crea un’immagine molto più forte di quella offerta da Ovidio, ricorrendo alla metafora del fuoco che, in pochissimo tempo, fa presa sulle cose ‘secche o unte’, per spiegare in maniera molto efficace la rapidità del contagio che avviene tra malato e sano. In tutti e due gli autori vi è la menzione a coloro che, una volta presa coscienza che non hanno più speranza di salvarsi, decidono di ‘assecondare le loro voglie e non si curano di quel che sia utile’: se in Ovidio l’attenzione è volta al piano personale, in Boccaccio, invece, lo sguardo va alla collettività, sottolineando come sia l’abbandono delle leggi ciò che porta alla dissoluzione: “in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda auttorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta” a tal punto che “era a ciascun licito quanto a grado gli era d’adoperare” (Boccaccio 1999: 113). In questo passaggio risiede il giudizio più duro che Boccaccio rivolge a coloro che si sono trovati ad affrontare la peste: la situazione che si viveva a Firenze era così nefasta che gli uomini iniziarono a tralasciare tutte le leggi che, fino a quel momento, avevano rappresentato la base della convivenza, non solo quelle create dagli esseri umani, ma addirittura quelle divine. Da quest’abbandono nasceranno una decadenza e corruzione tali per cui gli uomini concederanno spazio sempre più ai propri istinti, aprendo le porte a quella bestalità a cui si accennava in precedenza e considerando lecito fare tutto ciò che desiderano, senza più freni e limiti nei riguardi gli uni degli altri, dato che i freni imposti dalle leggi umane e divine sono completamente venuti a mancare.

Un altro passaggio interessante che lascia intravedere il dialogo che sembra istaurarsi tra i due testi è quello riguardante la presenza eccessiva di cadaveri che si cominciano ad accatastare gli uni sugli altri:

Ovidio, Met. VIII, 606 ss. Boccaccio 1999: 118
“I corpi dei defunti non venivano portati via con i funerali di rito: ché le porte non potevano farli passare tutti; o senza sepoltura premono il suolo o vengono accatastati sugli alti roghi senza un dono: ormai non c’è alcun rispetto e si azzuffano per i roghi e fanno bruciare i cadaveri sulle pire degli altri. Manca chi li pianga, sicché le anime non compiante dei figli e dei padri, dei giovani e dei vecchi vagano senza pace: non c’è più posto per le tombe né bastano gli alberi per le pire”. 9 “Era il più da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola, ne ponieno. […] Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn’ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie delle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenia”.

Qui si sottolinea in maniera drammatica cosa significa l’abbandono dei cadaveri: ciò che in Ovidio è una mancanza di rispetto verso i morti diventa, in Boccaccio, la necessità di provare a rispettare ‘l’antico costume’, dando una degna sepoltura a chi è spirato per colpa della peste, decidendo, data la straordinarietà della situazione, di seppellire i morti in fosse comuni grandissime. In entrambi i testi si fa riferimento non solo al fatto che nessuno accompagna più questi corpi nel loro ultimo viaggio, vale a dire verso la sepoltura, ma, più grave ancora, non vi è più spazio nemmeno per questo secondo momento: se all’inizio dell’epidemia (come ricordato in precedenza) ciò che viene a mancare sono le lacrime e i lamenti, ora, con il dilagare della peste, è la terra quella che è, per così dire, assente, incapace ormai di accogliere così tanti cadaveri. L’abbandono degli uomini sembra qui tradursi in un rigetto da parte della natura ormai impotente di fronte a una situazione di morte e desolazione di tali proporzioni.

La peste del De Rerum Natura a confronto con la narrazione del Boccaccio

L’ultimo autore che analizzeremo in dialogo con Boccaccio è Tito Lucrezio Caro. Sebbene vari studiosi pensino che Boccaccio non conoscesse direttamente il testo di Lucrezio, considero interessante sottolineare alcune allusioni alla narrazione dell’autore antico: analizzando certi particolari del racconto del Decameron l’evocazione del De Rerum Natura sembra, almeno, plausibile, come mostreremo qui di seguito.

Nel libro VI, 1138-1286 del suo De Rerum Natura, Lucrezio narra come la peste di Atene sia stato il frutto dell’agire della natura e, in particolare, come sia arrivata attraverso l’aria nelle acque e da qui sia poi passata al terreno; l’uomo, secondo quest’interpretazione, si ammala e si contagia attraverso il respiro:

Un tal genere di morbi e d’influsso mortale, un tempo, nella terra di Cecrope, rese funerei i campi e desolò le strade, svuotò la città di abitanti. Veniva, sorto dal fondo della contrada d’Egitto, traversando molta aria e molte pianure ondeggianti; s’abbattè alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora gli uomini a branchi erano abbandonati al morbo e alla morte. Da prima avevano il capo bruciante d’arsura, entrambi gli occhi rossi di interna luce diffusa. Trasudava sangue la gola, dentro annerita, ostruita da piaghe si serrava la via della voce, e l’interprete della mente, la lingua, colava umore sanguigno e indebolita dal male, grave a muoversi, ruvida al tatto. Poi, quando per le fauci la forza del morbo aveva riempito il petto, affluendo sin dentro al cuore angosciato degli infermi, allora cedevano ormai tutti i serrami della vita. L’alito fuor dalla bocca versava un lezzo greve come odorano nel disfacimento i cadaveri abbandonati. E subito tutte le forze dell’anima e tutto il corpo languivano, già sul limitare stesso della morte.10

Anche Lucrezio si sofferma sui sintomi, un po’ diversi rispetto a quelli raccontati da Ovidio e dal proprio Boccaccio, perché qui, oltre alla febbre e all’asfissia, c’è la testa caldissima e le fauci infuocate. L’autore antico indugia anche lui sulle conseguenze che soffrono coloro che non vanno a fare visita agli infermi per paura del contagio, vale a dire che moriranno di una morte indecorosa, mentre coloro che prestano il proprio aiuto e si espongono alla malattia, moriranno anch’essi per gli effetti del morbo, ma quest’ultima dovrà considerarsi come una morte ‘migliore’. Come già ricordato, anche Boccaccio racconta come molte persone schifassero e sfuggissero gli infermi e insiste su quest’abbandono che, poco a poco, si estende non solo ai luoghi e agli oggetti, ma anche ai propri affetti:

Lucrezio, La natura. VI, vv. 1235 ss. Boccaccio 1999: 112 e 114
“Giacché in nessun momento cessava d’apprendersi dall’uno all’altro il contagio del morbo insaziabile, come fra pecore lanose o mandrie bovine. E questo più d’ogni cosa accumulava morte su morte. Quanti evitavano di far visita ai familiari malati, troppo avidi di vita e timorosi della morte, li puniva poco più tardi con morte brutta e crudele, soli, privi d’aiuto, l’assenza di cure che uccide. Ma quelli ch’eran pronti ad assistere, se ne andavano per il contagio e la fatica, a cui allora li costringeva il pudore e il supplice richiamo degli infermi misto a una voce di pianto. Erano dunque i migliori a incontrare questo genere di morte e l’uno sull’altro, gareggiando nel seppellire la folla dei loro morti: tornavano stanchi di lacrime e di dolore; quasi tutti poi si buttavano sul letto per l’angoscia. Non si poteva trovare nessuno, che il morbo o la morte o il lutto non colpissero in un tale momento”.11 “Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. […] Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pistilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pistolenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta”.

In entrambi i testi, come si evince, si insiste sui motivi dell’abbandono e sulle sue conseguenze, mettendo in luce, per contrasto, chi muore prestando il proprio aiuto al prossimo, degno di una morte che deve considerarsi migliore rispetto a quella riservata a coloro che si comportano in maniera egoistica. Un altro punto di contatto fra i due testi si può stabilire nel modo in cui raccontano ciò che succede quando gli animali entrano in contatto con una persona ammalata o con un suo indumento. Quest’accenno alla sfera animale è interessante perché è un aspetto che non ritroviamo in nessuno degli altri racconti presi in esame:

Lucrezio, La natura. VI, vv. 1215 ss. Boccaccio 1999: 111-112
“E sebbene giacessero a terra insepolti molti corpi ammucchiati su corpi, pure gli uccelli e le fiere o balzavano lontano per sottrarsi all’acre fetore o, se ne gustavano, si accasciavano in rapida morte”.12 “Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra”.

In questo breve passaggio di Lucrezio è utile notare come ritroviamo ancora una volta un accenno alla sfera olfattiva, in questo caso l’acre fetore che emanano i cadaveri che ricorda molto da vicino il puzzo dei corpi corrotti presente nel Decameron: in questo caso, l’attenzione dell’autore non si sofferma, come succedeva negli autori citati in precedenza, sui corpi accatastati e ammucchiati, quanto piuttosto sulla presenza dei volatili e altre bestie che o si allontanavano a causa dell’odore e quindi, dobbiamo supporre, si salvavano o avvicinandosi ai cadaveri venivano immediatamente contagiati e morivano a causa della peste. Quest’accenno rapido alla presenza degli animali e agli effetti che si generano con il contatto con i cadaveri è, in Boccaccio, un’esposizione di più ampio respiro, dato che racconta in maniera particolareggiata ciò che accade a due maiali che si avventano sui vestiti di un malato e cadono subito morti, come sotto l’effetto di un potente veleno. Questo particolare riguardo agli animali e alle conseguenze della vicinanza con il corpo o indumenti contagiati non è presente in nessuno degli altri autori menzionati in precedenza; questo piccolo spunto antico sembra riecheggiare come presenza sottile e labile fra le parole dell’autore moderno.

Conclusioni

In queste pagine abbiamo voluto riscostruire il dialogo che intercorre tra la narrazione di Boccaccio e quella di altri autori a lui precedenti. Se è indubbio che debba riconoscersi l’orma di Diacono nella struttura generale data al racconto della peste nel Decameron, è altrettanto vero che sono presenti altri aspetti che sono degni di nota. A queste altre presenze abbiamo voluto dedicare la nostra attenzione, cercando di mostrare come sia possibile stabilire un dialogo tra il Decameron e altre opere antiche e come debba considerarsi una semplice imitazione, ma piuttosto un’appropriazione di alcuni passaggi da lui riformulati per raggiungere l’obiettivo che aveva in mente, vale a dire lasciare la sua testimonianza riguardo a un’orrida esperienza che tante ripercussioni ebbe sulla città di Firenze e i suoi abitanti. Oltre al racconto di Paolo Diacono, preso a modello e riscontrabile tra le righe in quello di Boccaccio, esistono altri motivi che si possono intuire durante la lettura, che si stagliano in sottofondo, come evocazioni sottili e quasi impalpabili, echi di altri racconti che, rimasti nell’immaginario dell’autore fiorentino, sembrano offrirgli le parole per ricostruire la sua esperienza durante la peste e aiutarlo, in un certo senso, a riflettere su alcuni degli effetti più gravi che quest’avvenimento ebbe sui rapporti civili e famigliari della comunità fiorentina del XIV secolo.

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1L’opera, divisa in sei libri, narra, come lo stesso titolo suggerisce, la storia dei Longobardi dal momento in cui lasciarono la loro patria fino all’arrivo in Italia. È interessante notare come, nel ripercorrere le sorti del popolo longobardo, Diacono decida di interrompere il suo racconto prima dell’inizio del periodo di decadenza, quasi a voler tacere il triste destino di questo popolo. Va detto che “l’opera originale è andata purtroppo perduta ma fortunatamente ne esistono ancora 115 copie una delle quali, che risulta anche fra le più antiche, è tuttora conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli. Nella composizione dell’Historia Longobardorum, Paolo utilizza diverse fonti scritte ma probabilmente anche orali; uno dei testi al quale attinge a piene mani è sicuramente uno scritto che introduce l’Editto di Rotari del 643 e noto come Ordo Gentis Langobardorum” (cfr. https://www.archeoares.it/blog/paolo-diacono/).

2Si veda il lavoro di García Jurado 2016 per approfondire il rapporto complesso che si crea tra autore antico e moderno e viceversa.

3“quod facile utrorumque animos averteret a belli consiliis nam tempore autumni et locis natura gravibus, multo tamen magis extra urbem quam in urbe, intoleranda vis aestus per utraque castra omnium ferme corpora movit. ac primo temporis ac loci vitio et aegri erant et moriebantur. postea curatio ipsa et contactus aegrorum volgabat morbos, ut aut neglecti desertique, qui incidissent, morerentur, aut adsidentis curantisque eadem vi morbi repletos secum traherent cotidianaque funera et morse ob oculos esset et undique dies noctesque ploratus audirentur. postremo ita adsuetudine mali efferaverant: animos, ut non modo lacrimis iustoque conploratu. prosequerentur mortuos, sed ne efferrent quidem aut sepelirent, iacerentque strata exanima corpora in conspectu similem mortem expectantium mortuique aegros, aegri validos cum metu, tum tabe ac pestifero odore corporum conficerent. et ut ferro potius morerentur, quidam invadebant soli hostium stationes. multo tamen vis maior pestis Poenorum castra quam Romana adorta erat, nam Romani diu circumsedendo Syracusas caelo aquisque adsuerant magis. ex hostium exercitu Siculi, ut primum videre ex gravitate loci volgari morbos, in suas quisque propinquas urbes dilapsi sunt; et. Carthaginienses quibus nusquam receptus erat, cum ipsis ducibus Hippocrate atque Himilcone ad internecionem omnes perierunt. Marcellus, ut tanta vis ingruebat mali, traduxerat in urbem suos infirmaque corpora tecta et umbrae recreaverant. multi tamen ex Romano exercitu eadem peste absumpti sunt”.

4“Alla fine, per l’abitudine al male ci si era così abbruttiti negli animi che non solo non si accompagnavano in corteo i morti con lacrime e con la dovuta lamentazione, ma neppure si faceva loro il funerale o li si seppelliva”.

6“iacerentque strata examina corpora in conspectu similem mortem exspectantium, mortuique aegros, aegri ualidos cum metu, tum tabe ac pestifero odore corporum conficerent; et ut ferro potius morerentur, quídam inuadebant soli hostium stationes”.

7 Ovidio, Met. VII, 523-527: “Dira lues ira populis Iunonis iniquae incidit exosae dictas a paelice terras. Dum visum mortale malum tantaeque latebat causa nocens cladis, pugnatum est arte medendi: exitium superabat opem, quae victa iacebat. Una peste tremenda, originata dall’ira di Giunone indispettita che questa terra, Egìna, avesse il nome di mia madre, rivale sua in amore, si abbatté sul mio popolo. Finché sembrò un malanno naturale e oscura ci fu la causa dell’orrenda strage, la combattemmo con la medicina. Ma il flagello era tale che ogni mezzo riusciva vano e bisognava arrendersi”.

8«non stratum, non ulla pati velamina possunt, nuda sed in terra ponunt praecordia, nec fit corpus humo gelidum, sed humus de corpore fervet. nec moderator adest, inque ipsos saeva medentes erumpit clades, obsuntque auctoribus artes; quo propior quisque est servitque fidelius aegro, in partem leti citius venit, utque salutis spes abiit finemque vident in funere morbi, indulgent animis et nulla, quid utile, cura est: utile enim nihil est».

9«corpora missa neci nullis de more feruntur funeribus (neque enim capiebant funera portae): aut inhumata premunt terras aut dantur in altos indotata rogos; et iam reverentia nulla est, deque rogis pugnant alienisque ignibus ardent. qui lacriment, desunt, indefletaeque vagantur natorumque patrumque animae iuvenumque senumque, nec locus in tumulos, nec sufficit arbor in ignes».

10 Lucrezio, La natura, VI, vv. 1138-1157: “Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus finibus in Cecropis funestos reddidit agros vastavitque vias, exhausit civibus urbem. nam penitus veniens Aegypti finibus ortus, aera permensus multum camposque natantis, incubuit tandem populo Pandionis omni. inde catervatim morbo mortique dabantur. principio caput incensum fervore gerebant et duplicis oculos suffusa luce rubentes. sudabant etiam fauces intrinsecus atrae sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat atque animi interpres manabat lingua cruore debilitata malis, motu gravis, aspera tactu. inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum morbida vis in cor maestum confluxerat aegris, omnia tum vero vitai claustra lababant. spiritus ore foras taetrum volvebat odorem, rancida quo perolent proiecta cadavera ritu. atque animi prorsum tum vires totius, omne languebat corpus leti iam limine in ipso”.

11 Lucrezio, La natura, VI, vv. 1235 ss.: “quippe etenim nullo cessabant tempore apisci ex aliis alios avidi contagia morbi, lanigeras tam quam pecudes et bucera saecla, idque vel in primis cumulabat funere funus nam qui cumque suos fugitabant visere ad aegros, vitai nimium cupidos mortisque timentis poenibat paulo post turpi morte malaque, desertos, opis expertis, incuria mactans. qui fuerant autem praesto, contagibus ibant atque labore, pudor quem tum cogebat obire blandaque lassorum vox mixta voce querellae. optimus hoc leti genus ergo quisque subibat. Praeterea iam pastor et armentarius omnis et robustus item curvi moderator aratri languebat, penitusque casa contrusa iacebant corpora paupertate et morbo dedita morti”.

12 Lucrezio, La natura, VI, vv. 1215 ss.: “multaque humi cum inhumata iacerent corpora supra corporibus, tamen alituum genus atque ferarum aut procul absiliebat, ut acrem exiret odorem, aut, ubi gustarat, languebat morte propinqua”.

Received: June 12, 2023; Accepted: September 27, 2023

Giuditta Cavalletti

Licenciada en Letras Clásicas por la Università di Bologna, maestra y doctora en Letras (Clásicas) por la Universidad Autónoma de México, es investigadora de tiempo completo en el Centro de Estudios Clásicos del Instituto de Investigaciones Filológicas de la UNAM. Actualmente es directora de la revista Nova Tellus, única revista mexicana que publica trabajos relativos al estudio del mundo antiguo clásico, su tradición y recepción. Pertenece al Sistema Nacional de Investigadores del CONACYT (SNI). Se dedica al estudio de la epigrafía latina, entendida como un medio de comunicación y una herramienta de propaganda, en relación con el ámbito político y religioso del mundo romano, y a la recepción de motivos clásicos en el mundo moderno. Imparte las asignaturas de Historia de Roma e Introducción a la epigrafía latina en el Colegio de Letras Clásicas de la FFyL (UNAM). Ha participado en coloquios y congresos nacionales e internaciones en los cuales ha presentado trabajos relacionados con sus líneas de investigación. Entre sus publicaciones recientes destacan, entre otros, los artículos “La escritura expuesta en Roma: el caso de los epígrafes” y “El uso de la epigrafía en ámbito político: el caso de las Res gestae divi Augusti” y el libro Recepción Clásica y modernidad en los siglos XX y XXI: la antigüedad clásica en la narrativa y pensamientos contemporáneos, editado por Javier Espino Martín y Giuditta Cavalletti.

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